Dal regista di Dallas Buyers Club (2013), Demolition è un film che esplora un malessere non solo limitato alla tragedia personale, ma anche alla categoria di persone benestanti e insoddisfatte, alla ricerca di un senso in quello che fanno e che quotidianamente capita loro. Davis Mitchell (Gyllenhaal) ha appena perso la moglie in un incidente d’auto, e in ospedale vorrebbe comprarsi una busta di noccioline. Ma questa si incastra nella macchinetta e Davis scrive una lunga lettera al servizio clienti della società, nella quale, con la scusa di chiedere il rimborso, decide di raccontare tutta la storia sua e di sua moglie, rivelando il suo passato di ansia ed emozioni represse. Davis è uno che se la passa bene, ha una villa ultramoderna fuori città e un ufficio in cima a un grattacielo di Manhattan, dove lavora nella compagnia del suocero. Ma scrivendo ammette di non amare il suo lavoro e nemmeno aver amato sua moglie, e non ne capisce il perché. Le lettere (perché Davis continua a scrivere) destano l’interesse di Karen Moreno (Naomi Watts), la responsabile del servizio clienti della società delle macchine distributrici. Karen si sente coinvolta: è sola con un figlio dodicenne indeciso sulla sua sessualità, fuma marijuana, ha un rapporto anche sentimentale col suo capo e si sente inadeguata e insoddisfatta. Intanto Davis ha deciso di darsi da fare, cambiando totalmente le sue abitudini: si licenzia, diventa “trasandato” (indossa abiti da lavoro e smette di radersi il petto) e inizia a smontare tutto ciò che trova; elettrodomestici, porte, la sua stessa casa, nel tentativo di darsi delle risposte. “Tutto è una metafora”, si dice il protagonista, con l’idea di ripartire dai singoli pezzi, per potersi ricostruire; ma il primo a rendersi conto che non funziona è lui stesso, incapace, dopo aver ridotto tutto ai minimi termini, di rimontare alcunché. La risposta va trovata altrove, forse in un rapporto tenero e casto con una donna, forse nel cominciare a prendersi responsabilità nei confronti degli altri.
Costruito sul ritmo delle lettere e sull’ironia con cui il regista guarda al protagonista, Vallée gioca elegantemente col montaggio, passando dal passato del matrimonio al presente solitario, e scandendo (forse indulgendo anche un po’ troppo) con asettiche immagini il benessere materiale di Davis e la sua disperazione interiore. Un po’ semplicistica e stereotipata invece sembra la descrizione di Chris, il figlio di Karen, anche se offre spunti interessanti sulla figura paterna. Brava Naomi Watts, ma soprattutto Jake Gyllenhaal, perfettamente compreso nel mostrare un percorso travagliato, alla ricerca di quella “cognizione del dolore” senza la quale ogni demolizione risulta inutile.
Beppe Musicco