Guardando Decision to Leave (premiato per la miglior regia nel 2022 a Cannes) non si può che rimanere ancora una volta stupefatti dalle doti narrative e dalle audaci scelte visive del regista Park Chan-wook. In un mondo dominato dalla tecnologia ma nel quale le differenze sociali sembrano da questa acuite, piuttosto che annullate, il regista di Oldboy e Lady Vendetta approfitta della dipendenza comunicativa dagli smartphone per mostrarne le ambiguità: un messaggio di testo può essere equivoco, non mostrandone l’intonazione; un messaggio vocale può risultare ambiguo quando la persona che l’ha lasciato ora non c’è più.
L’appassionato scalatore Ki Do-soo (Yoo Seung-mok) è caduto da un picco a forma di fungo, morendo sul colpo. A decidere se la morte sia accidentale o provocata è il detective della polizia Hae-Joon (Park Hae-il), che propende per la seconda ipotesi. Mentre scatta foto del corpo con il suo telefono, vediamo insetti camminare sugli occhi spalancati del cadavere (e qui si comincia a vedere che il regista di Oldboy non ha perso il suo tocco); una scelta, quella del poliziotto (tenersi le foto sul proprio telefono), che fa capire da subito come il protagonista si tutt’altro che ligio alle regole. Costretto in un matrimonio arido e abitudinario, Hae-Joon è un debole, propenso a prendere scorciatoie sia nella vita che nel lavoro; soffre di insonnia e probabilmente anche di depressione, il che lo porta a essere spesso in uno stato di apparente dormiveglia. Non stupisce quindi che rimanga colpito dalla figura della bella vedova Seo-rae (Tang Wei), immigrata cinese che ha sposato un uomo più anziano che (guarda caso) lavorava al dipartimento dell’immigrazione: elementi che fanno di lei la prima sospettata. Una delle prime scene dell’interrogatorio incarna tutto ciò che è giusto e sbagliato in Decision to Leave. Quando Hae-Joon interroga Seo-rae su suo marito, Park, consapevole del fatto che abbiamo guardato variazioni di questa sequenza per tutta la vita, si dedica a ogni elemento che non ha immediatamente importanza per la storia, trovando modi diversi per evitare la tipica doppia inquadratura dei personaggi principali. Usa vetri, schermi di computer, telefoni per creare immagini prismatiche, per rimarcare come i dispositivi moderni rimandino a spazi all’interno di altri mondi, che riescono a rendere quasi inintelligibile la comunicazione originaria.
Ma per tutto il film Park mescola ambiguità e sconcerto, continuando a lanciarci informazioni, spiegandoci cose che non sembrano legate alla soluzione della storia. Park, per esempio, sta chiaramente combattendo il cliché cinematografico e televisivo del poliziotto che sembra lavorare solo un caso alla volta, e così vediamo Hae-Joon indagare altri misteri che vengono rapidamente svelati. Ma quando ti rendi conto che questi crimini non hanno nulla a che fare con il già contorto omicidio dell’alpinista, capisci che sono stati scartati allo scopo di dare maggiore esposizione al vero cuore della vicenda.
Ma quando sembra che il film si focalizzi sull’ossessione romantica di Hae-Joon per Seo-rae, il detective risolve il suo mistero centrale e ricomincia tutto da capo, dando vita a un secondo omicidio, più disordinato e meno convincente da risolvere. Attraverso circonvoluzioni ridicole anche per il genere poliziesco, Seo-rae figura in entrambi i casi, come un sogno romantico ad occhi aperti, quasi nella tradizione della misteriosa protagonista de La donna che visse due volte di Hitrchcock. Ed ecco, come nel film di Hitchcock, in Chinatown di Roman Polanski, Zodiac di Fincher, così nel sudcoreano Memorie di un assassino di Boon Jong-ho, Park continua a lanciarci addosso particolari senza sosta: registrazioni telefoniche, una storia in evoluzione del background di una donna che cura gli anziani, tre matrimoni difficili, una riflessione sulle differenze tra Corea del Sud e Cina, e così via – mentre lascia che la storia di Hae-Joon e Seo-rae si attorcigli e si assottigli nel vento. La trama è così (inutilmente?) complicata, che raramente si possono assaporare i personaggi o perdersi nell’atmosfera, poiché Park sovradimensiona tutte le qualità più interminabili di un tipico thriller giudiziario.
Decision to Leave alimenta l’ammirazione dello spettatore per la creatività delle riprese, al tempo stesso però favorendo quasi una sorta di apatia verso gli elementi fondamentali, come l’identità di un assassino o i brividi degli amanti proibiti. Per tutto il tempo si sente spesso che la trama e poesia di Park spingono in opposte direzioni, anche se in alcuni casi la poesia vince, specialmente durante una scena sulla spiaggia che, tra le onde della marea che monta e un’incipiente agonia, suggerisce il climax de Il lungo addio di Robert Altman. Qui, un primo piano di una mano che si chiude, sigillando il suo destino, è di una bellezza straziante, anche se ci lascia ancora una volta a chiederci se sia una fine o l’ennesimo inizio.
Beppe Musicco