Daliland inizia nel 1974. Il grande pittore Salvator Dalì vive a New York all’Hotel Riz tra feste ed eccentrici bagordi. Deve però organizzare una mostra perché ha bisogno di soldi, soprattutto la moglie Gala che col tempo ha dilapidato il patrimonio del marito. In loro supporto arriva James, un giovane appassionato d’arte che lavora per il gallerista che deve organizzare la mostra e cui viene affidato il difficile compito di seguire da vicino Dalì per spingerlo a creare…

Non era facile portare sullo schermo un biopic sulla figura di Salvator Dalì, pittore spagnolo del ‘900 creativo, provocatorio, imprevedibile e inafferrabile. La regista canadese Mary Harron ha ripreso la sceneggiatura scritta da John Walsh che si concentra sul periodo finale della carriera di Dalì, impersonato egregiamente da Ben Kingsley. Nei 104 minuti di durata del racconto entriamo nell’ambiente che circondava il pittore, fatto di giovani aspiranti artisti e approfittatori; una sorta di corte dei miracoli in adorazione del maestro ma anche un po’ parassita. Di Dalì vediamo la decadenza artistica, il tremore che ne colpisce le mani, gli scatti d’ira, l’ipocondria e la gelosia per la moglie Gala (Barbara Sukowa), molto più attenta ai suoi giovani amanti che a lui. Lo vediamo tornare nella sua amata Spagna, in cerca di ulteriore ispirazione, e poi depresso negli ultimi anni di vita per la morte della moglie.

La storia è vista attraverso gli occhi dell’aspirate gallerista James (Christopher Briney), che diventa un collaboratore fedele del pittore, così come gli è devota una giovane Amanda Lear (Andrejia Pejic). L’ambiente della New York anni 70 così come il declino ma anche l’orgoglio del pittore sono descritti bene e un ruolo importante lo svolge sicuramente la maestria di Ben Kingsley, sul quale si regge tutto il racconto. In questo biopic, tuttavia, viene approfondita poco l’arte di Dalì; ed è un peccato. Poco efficaci anche i flashback con Dalì giovane impersonato da Ezra Miller, non certo ispiratissimo nella parte. Un film con alcuni spunti di interesse ma che avrebbe potuto essere più approfondito, senza per questo diventare troppo didascalico o pedante.

Stefano Radice

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