L’incipit, non originalissimo, vede i due giovani protagonisti, Cosimo e Nicole, che separatamente rispondono a un interlocutore che non vediamo (ma si intuisce essere interrogatori in carcere). Poi, a ritroso, viene raccontata la loro storia. Si conoscono al G8 di Genova, in mezzo agli scontri dei manifestanti con la polizia: lei si prende una manganellata, lui la soccorre. Inizia una storia inizialmente di passione travolgente, molto fisica e sessuale ma anche trascinante nelle decisioni prese (“decidevamo tutto all’ultimo momento, treni presi al volo…”), all’insegna della precarietà che diventa, fino a a un certo punto, vitalismo ribelle. Ma, come si può intuire, non dura. A un certo punto la loro storia si incrocia, ancora a Genova, con un imprenditore che organizza concerti, conosciuto proprio nei giorni del G8: per Cosimo sembra la valorizzazione delle proprie capacità come fonico, lei inizia a mostrarsi scostante di fronte a piccole incrinature nella loro vita; finché l’incidente a un lavoratore irregolare fa saltare l’equilibrio…,Al secondo film, dopo il piccolo e curioso Ma che ci faccio qui! che era praticamente un saggio di fine corso al Centro Sperimentale di Cinematografia, Francesco Amato trova una grande produzione come Cattleya e un divo protagonista come Riccardo Scamarcio, che con impegno si costruisce personaggio dopo personaggio un proprio percorso artistico lontano dai primi successi di Tre metri sopra il cielo. Scamarcio e ancor più la giovane francese Clara Ponsot, una vera forza della natura dotata di notevole sex appeal: la credibilità della narrazione si poggia moltissimo sui due protagonisti, cui si aggiunge il bravo Paolo Sassanelli nei panni dell’imprenditore generoso e ambiguo al tempo stesso.
Ma Cosimo e Nicole, che alterna momenti interessanti a troppi sviluppi prevedibili e schematici, ha anche un po’ il fiato corto, sia sul fronte della sceneggiatura che non ha il coraggio di rendere emblematica la loro storia – con loro fuori dal carcere – finendo in una consolatoria e improbabile festa africana, sia su un piano squisitamente visivo: va bene mostrare vite precarie e ai limiti (la baracca in cui vivono, altro elemento un po’ troppo facile), ma di spettacolare e cinematografico, oltre alle bellezze mostrate generosamente dalla Ponsot e a qualche paesaggio, c’è poco. E le sequenze iniziali del G8 sono fin troppo debitrici a una visione scontata, sia politica che esteticamente. Il rischio è di trovarsi, subito agli inizi di carriera, davanti all’ennesimo regista che si accontenta di essere un autore da festival – e ce ne sono fin troppi – invece che un narratore in cerca di un pubblico. Mentre il piccolo ma fresco esordio faceva pensare esattamente il contrario.
Antonio Autieri