Il grande regista western abbandona per un istante cavallo e winchester per ritornare su tematiche sociali a un anno di distanza da Furore (1940) ma, diversamente dal film tratto dal romanzo di Steinbeck, qui la polemica cede il passo ad un realismo che sa andare oltre l’ideologia. Pur nel disfacimento di una grande famiglia patriarcale e nel susseguirsi continuo delle disgrazie, il film racconta con profondo sentimento dinamiche e tensioni familiari, testimoniando la dimensione bellissima del canto popolare e della solidarietà operaia. Ci sono scene che toccano lo spettatore come poche altre nella storia del cinema; ad esempio quella in cui la madre (vittima di un incidente invernale assieme al figlio più piccolo) riprende a camminare dopo molti mesi trascorsi forzatamente a letto e tutto il paese la viene a salutare sulla soglia per festeggiarne i primi passi e il ritorno alla vita comune. Indimenticabili le lunghe sfilate dei lavoratori verso la miniera, la cui sirena annuncia troppo spesso un nuovo lutto, o l’amore, confessato a fior di labbra, tra il pastore Gruffydd e la giovane Angharad (una splendida Maureen O’Hara) sorella del protagonista. Se l’emigrazione di alcuni membri della famiglia, resa necessaria dalla grande indigenza, o la morte in miniera del vecchio Morgan divengono ben presto segni evidenti della fine di un’epoca (che il narratore racconta con trasporto ma anche con il distaccato disincanto dell’età avanzata) non per questo i valori che la sorreggevano hanno smesso di svolgere la loro funzione: di fronte al capolavoro di John Ford lo spettatore è chiamato a riconoscerne la forza positiva e ragionevole di un realismo familiare incentrato sulla dimensione comunitaria e sulla semplicità del quotidiano.,Pietro Montorfani