Los Angeles, fine anni 60: l’attore televisivo Rick Dalton, un tempo divo sulla cresta dell’onda con i telefilm western, fatica ad adattarsi a una Hollywood in rapida trasformazione in cui nuovi volti reclamano spazio e lui, pur ancora giovane, sembra già superato. Lo accompagna sui set e ovunque – amico inseparabile e collaboratore tuttofare – la sua storica controfigura Cliff Booth, uomo pratico e dai modi spicci su cui gravano voci di un presunto uxoricidio. Intanto, nella villa accanto a quella di Rick, arriva una coppia da jet set, sulla cresta dell’onda: il regista Roman Polanski – all’apice della popolarità dopo aver diretto l’horror di successo Rosemary’s Baby – e la sua giovane e bellissima moglie Sharon Tate; una coppia che Dalton spera di agganciare per future parti nel grande cinema. Il regista, mesi dopo, parte per un viaggio e la moglie, in stato di avanzata gravidanza, passa le giornate con alcuni amici e in giro per la città. Ma altri personaggi, strani o inquietanti, si aggirano nelle loro vite: come un gruppo di hippy che vive in un ranch poco lontano.
C’era una volta a… Hollywood è un titolo quanto mai significativo, che ci fa entrare subito nel clima del nono film di Quentin Tarantino: c’è innanzi tutto una strana aria di fiaba, nostalgica ma anche inquietante; c’è il ricordo elegiaco di una stagione mitica (i fatti si svolgono tra il 1968 e l’agosto 1969), in cui il cinema era stato la cosa più importante ma lo era ancora in realtà, magari contaminato con il fratello minore della tv (quei telefilm di genere non avevano certo l’aura di sacralità delle serie odierne) di cui comunque condivideva luoghi, volti e carriere; e c’è tutta la passione per questo mondo di un autore che su questi temi e toni ci ha spesso sguazzato, in maniera citazionista e cinefila. Tutte cose che ovviamente qui sono all’ennesima potenza: certe allusioni (il cinema italiano di genere, qui parodizzato ma amato da Tarantino), oggetti e ambienti restituiti con maniacale credibilità e fantastiche citazioni faranno impazzire più d’uno (su tutti la scena del celebre La grande fuga con Steve McQueen, rifatta con un Rick Dalton che immagina di aver avuto quella chance; ma diverte anche la finta Sharon Tate che va al cinema a vedere un suo B-movie con Dean Martin). Certi personaggi (come quello dell’agente interpretato da Al Pacino) regalano battute e argute riflessioni, alcune partecipazioni (Kurt Russell) mandano in visibilio i fans, certi momenti (lo scontro con Bruce Lee…) sono già cult… Ma la vertigine vera è assicurata dal continuo gioco tra realtà e finzione, tipico di ogni film sul Cinema ma qui portato all’ennesima potenza: a partire dal gioco di “rispecchiamenti” della coppia divo/controfigura che raddoppia poi nella “finta” Sharon Tate che va al cinema a vedere quella vera…
Qui però, oltre al divertimento cinefilo, c’è in più una sublimazione dell’amore di Tarantino per il cinema, in chiave meno autoreferenziale e più personale e commossa. A partire dallo sguardo sui tre personaggi principali. Il Rick Dalton interpretato come sempre benissimo da Leonardo DiCaprio è un mix di frustrazioni, insicurezze e ingenuità che lo rendono indimenticabile, ma altrettanto lo è il più duro Cliff Booth con il quale Brad Pitt (se ce ne fosse bisogno) entra nell’empireo dei più grandi, con una prova di rara finezza. E il loro rapporto di amicizia virile vale da solo il film. Quanto al personaggio più difficile e doloroso, perché non di fantasia, ovvero quella Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie) che al volgere di quell’estate troverà la morte nell’orrendo massacro di alcuni seguaci della setta di Charlie Manson, Tarantino ne fa un ritratto appena accennato ma palpitante (incredibili le polemiche sul poco spazio riservato a lei), davvero commosso: un omaggio, che forse potrà turbare chi l’ha conosciuta (lo stesso Polanski non ha preso bene l’idea di inserirla in un film) ma che ci sembra davvero dare una luce diversa al regista diventato aggettivo un po’ banalizzato: qui di “tarantiniano” in senso classico, ovvero di scene violente e grottesche, c’è poco se non una sequenza nella parte finale del film che forse è la cosa meno felice di C’era una volta a… Hollywood. Quanto al finale, su cui Tarantino e la produzione (ma anche il buon senso) reclamano giustamente la segretezza, è sicuramente rischioso e capace di dividere – come tutto il film – ma, a nostro avviso, ideale per concludere una vicenda in cui il grande Quentin ha messo più emozione e romanticismo, verso il Cinema e verso i suoi protagonisti (anche minori), che in tutti gli altri suoi film. Perché è questo che rimane del film: l’umana passione e anche pietà verso persone “difettose”, inserite in un mondo di stravaganti ma anche folli come certo è Hollywood; un mondo che ti può dannare o anche salvare. In una società in cui la violenza – anche per il momento storico in cui è rappresentato, con le sue tensioni sociali e politiche, tra Contestazione del ’68 e guerra in Vietnam – non è finzione come quella sul set; e la rappresentazione della setta di Manson è inquietante al punto giusto ma con poche concessioni al cattivo gusto, a parte nella scena già citata.
Quella pietà, non tutti avrebbero pensato essere nel bagaglio personale del regista di Pulp Fiction; ma pure, a pensarci bene, a sprazzi – fin da Le iene e dallo stesso Pulp Fiction – momenti di insospettabile tenerezza e umanità spuntavano in personaggi anche violenti. E alla fine questo film narrativamente e visivamente ricco in maniera quasi stordente, che non è un capolavoro senza difetti e che spiazza anche per una lentezza voluta (perché imita lo stile dei film della new Hollywood di fine anni 60/anni 70, tra divagazioni, stravaganze e forme narrative sperimentali: ma erano anche gli effetti “stupefacenti” di quello che girava sui set cui pure si allude…), ci rimane nell’anima molto più di altre sue opere altrettanto ambiziose ma con meno “cuore”. Un’opera debordante, ricca di nostalgia per un mondo che non c’è più (in cui tutti vivevano di Cinema e per il Cinema: anche se a Los Angeles è ancora così). E in cui quella che appariva inizialmente la sua digressione meno utile – un episodio pilota di una serie che forse non si farà mai – ci regala una serie di gemme notevoli: da una bambina saccente che sa già tanto del cinema e della vita allo sfogo comico e umanissimo di un divo in crisi, dalla performance che nessuno si aspetta più da lui all’emozione per aver scoperto che quel mondo e quell’arte ancora possono aver bisogno di lui.
Antonio Autieri