1968. David “Noodles” Aaronson torna a New York dopo trentacinque anni per chiudere i conti con il suo passato. L’ultima volta che era stato nella metropoli, nel 1933, era sfuggito fortunosamente a un agguato omicida e, prima di prendere il primo treno e sparire dalla circolazione, aveva scoperto di aver ereditato una valigia piena di carta straccia lì dove doveva esserci una fortuna in dollari. Non c’è rabbia nel suo sguardo, né nelle sue azioni, ma nei suoi pensieri si agita il desiderio di trovare le risposte ad alcune domande. Con la memoria ripercorre la sua vita intera, che dal ghetto ebraico di New York l’aveva portato – insieme ai “bravi ragazzi” con cui era cresciuto – a dominare la malavita della città; rievoca la storia della sua amicizia tormentata con Maximilian “Max” Bercovicz, da cui lo divideva una diversa concezione del crimine e una maggiore consapevolezza del proprio limite; soprattutto, ricorda Deborah, la donna che ha amato per tutta la vita (e corteggiato attraverso il Cantico dei cantici) senza essere mai corrisposto. Quanti rimpianti, e quante brutte sorprese lo attenderanno…
Un indimenticabile gangster movie tratto dal romanzo autobiografico The Hoods (1952), che il vero gangster David Aaronson pubblicò con lo pseudonimo di Harry Grey (tradotto in Italia come Mano armata e pubblicato da Longanesi), alla cui sceneggiatura, oltre al regista, misero mano Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli e Franco Ferrini. A distanza di anni, il “testamento spirituale” di Sergio Leone sfugge alle categorie critiche consuete per consegnarsi direttamente, e meritatamente, alla leggenda del cinema. Come film, C’era una volta in America è tutt’altro che perfetto, tradisce le spropositate ambizioni e rischia di perdere il confronto diretto con le precedenti opere del regista, soprattutto con gli episodi della “trilogia del dollaro”, rigorosi e implacabili, con cui Leone – da italiano – aveva invaso e colonizzato un territorio americano, fissando per sempre il punto di non ritorno di tutto il genere western. A Leone non riesce, con C’era una volta in America, di reinventare il genere gangster così come gli era riuscito con il western.
Al cinema, però, non sempre la perfezione paga. Ci sono cineasti che realizzano “grandi film” e cineasti che realizzano “grande cinema”. Sergio Leone appartiene senz’altro alla seconda categoria. Il suo congedo dal cinema, dopo una lavorazione laboriosissima che si trascinò per tredici anni, è un’opera colossale e memorabile, una cavalcata travolgente nella storia americana della prima metà del Novecento, che lavora nella mente dello spettatore e del suo “immaginario”, alla scoperta del concetto stesso di “cinema”. Più di ogni altra cosa, infatti, C’era una volta in America è una macchina spettacolare sontuosa, magnetica e avvolgente, dove la storia – la trama – è quasi solo un pretesto: è cinema allo stato puro perché è una riflessione sul tempo che passa, sul potere ipnotico della memoria e sulla sostanza dei sogni. Idealmente, è il terzo tassello della “trilogia del tempo”, iniziata con C’era una volta il West (1968) e protratta con Giù la testa (1971), il cui titolo di lavorazione era “C’era una volta la rivoluzione”. All’insegna del “c’era una volta”, dunque, della favola, dell’allegoria e del mito. Il mito di un’America vista dagli occhi di un europeo, di un italiano, cresciuto con i suoi racconti e che quegli stessi racconti reinterpreta, restituendone la grandiosità e l’epica distanza. Nelle intenzioni di Leone, la “trilogia del tempo” avrebbe dovuto allargare l’orizzonte della “trilogia del dollaro”, contestualizzandone storicamente i temi che, di film in film, sono sempre gli stessi: l’atrocità della violenza, il senso dell’onore e della lealtà, l’amicizia virile, la memoria e la vendetta.C’era una volta in America condensa tutto questo in una storia di amicizia e tradimento che corre dal 1921 al 1968 e che, in ogni sequenza e attraverso un’audace e labirintica struttura narrativa, denuncia continuamente malinconia e nostalgia. Il film va continuamente avanti e a ritroso nel tempo, attraverso flashback e flashforward, e confronta continuamente i personaggi con il loro passato, mettendo allo specchio i desideri di alcuni bambini resi adulti dalla violenza della strada (il quartiere ebraico di New York negli anni Venti del Novecento) e ciò cui l’inseguimento di desideri ha portato (disillusione, compromessi, sconfitte).
Il film si apre e si chiude in una fumeria d’oppio negli anni Trenta dove il gangster “Noodles” (nomignolo di David Aaronson, interpretato da Robert De Niro) si è rifugiato, prima di sfuggire a banditi che vogliono fargli la pelle. Questa cornice – in cui si mostra anche uno spettacolo di “ombre cinesi”, un antenato del cinema – ha interrogato per anni gli appassionati sulla possibilità che tutto quello che si vede nel mezzo sia in realtà un sogno, una visione del protagonista prodotta dall’assunzione delle droghe, lettura che Sergio Leone non ha mai né confermato né smentito, ma dato comunque come plausibile. Un omaggio al cinema e all’America che, nel raccontare la progressiva e amara rottura di un’amicizia, ricorda tematicamente un grande film di molti anni prima, Duello a Berlino (1943) di Michael Powell ed Emeric Pressburger. Lo stile, però, è tutto di Leone, e della sua concezione di cinema come spettacolo sfarzoso, complice una leggendaria colonna sonora di Ennio Morricone, conosciutissima anche da chi non ha mai visto il film. Solo un genio del cinema può rendere struggente, attraverso lo stile, la regia e la confezione perfetta, il ricordo delle azioni più abiette compiute da parte di un personaggio. Non per questo lo sguardo di Leone è indulgente nei confronti della violenza o acritico rispetto alla malvagità e alle bassezze di cui è capace l’essere umano. Piuttosto, la sua è una riflessione sull’illusione e l’inutilità del potere, sulla caducità delle cose umane quando il fine ultimo è la grandezza umana fine a se stessa, sulla profondità delle ferite quando a essere lacerati sono gli amori e le amicizie.
Raffaele Chiarulli