Crudele, ma non privo di aperture (anche espressamente al trascendente), il melò firmato da James Gray (che questo territorio aveva esplorato anche nel precedente Two Lovers ) segue l’itinerario di (forzata) perdizione della sua protagonista (praticamente sempre in scena) facendolo diventare in qualche modo anche il simbolo del tradimento di quel “sogno americano” seguendo il quale Ewa ha attraversato l’oceano. Fermata all’arrivo per le macchinazioni di un personaggio ambiguo (il Bruno interpretato da Joaquin Phoenix è in parte imbonitore, in parte gestore di prostitute, lui stesso vittima di altri delinquenti anche se in divisa), Ewa è mossa da quella “ricerca della felicità” che è scritta nella dichiarazione di indipendenza americana, ma si scontra ben presto con le contraddizioni del Nuovo Mondo. A tenerla in vita, oltre a un tenace istinto di sopravvivenza, l’amore per la sorella malata che è rimasta bloccata a Ellis Island e per la quale Ewa accetta di degradarsi fino alla prostituzione.

L’affresco d’epoca restituisce il senso di una miseria umana in cui lo sfruttamento è la regola, un’epica del negativo in cui soprattutto le donne sembrano avere pochissime opzioni per sopravvivere. Il sottobosco dell’intrattenimento per i poveri, che mescola cabaret con illusionismo ma soprattutto, con la connivenza delle forze dell’ordine, spogliarelli mascherati da esibizione artistica (Ewa, ironicamente, viene costretta ad esibirsi nei – succinti – panni della Statua della Libertà pronta ad accogliere poveri e diseredati), rende bene l’atmosfera di confusione morale in cui si muovono i protagonisti. Eppure in questo universo oscuro (che la fotografia e la scenografia della pellicola rendono con maestria rispecchiando i sentimenti dei personaggi) c’è ancora spazio per la bellezza e la speranza, sia essa incarnata da un illusionista venuto a portare sollievo ai “prigionieri” dell’isola degli emigranti (Jeremy Renner, una sorta di imperfetto angelo custode, a fare da contraltare solare al demoniaco Phoenix), da una processione religiosa contemplata da lontano o infine dallo spazio di un confessionale dove si sente pronunciare la parola “perdono”.

Il film, un melò che pesca in atmosfere letterarie ma non rinuncia a nessuno degli strumenti dell’arte cinematografica per agganciare lo spettatore, ha il suo pregio maggiore nella definizione dei caratteri. Non solo la protagonista Ewa, una creatura che pur degradata continua a difendere la propria dignità e rifiuta di lasciarsi spezzare, ma soprattutto il suo “aguzzino”: un personaggio in fondo tragico, diviso tra un’impossibile aspirazione al bene e il male che lo opprime, che si innamora di lei ma che non la sa amare nel modo giusto. E così la pellicola, pur senza risparmiare nulla dell’orrore attraverso cui Ewa è costretta a passare, si lascia aperta la strada per una pietas che investe anche i cattivi. “Io non sono niente” dichiara Ewa a chi la umilia, ma è proprio la certezza della sua dignità di persona (cui non è estranea la sua fede, per quanto messa alla prova) che le permette di guardare l’altro superando l’odio. Un viaggio che coinvolge e commuove fino ad una dolorosa catarsi e che, nell’apparente distruzione di un sogno di fuga, riporta Ewa all’origine del suo sacrificio (la sorella), ma permette finalmente anche al suo ex aguzzino di sperimentare davvero la possibilità della redenzione.

Luisa Cotta Ramosino