Poco tempo dopo Il profeta, un altro dramma carcerario, questa volta proveniente dalla Spagna, giunge sui nostri schermi. Così, dopo diversi successi provenienti in particolare dal genere horror (si ricordino i Rec di Balagueró, The Others di Amenábar e The Orphanage di Bayona), il cinema iberico si fa notare grazie al lavoro di Daniel Monzón. Il giovane regista firma anche la sceneggiatura, solida e a tratti imprevedibile, scegliendo di puntare molto sull’azione e poco sui dialoghi.,Quando il secondino Juan Olivier compirà un sopraluogo del carcere (dove avrebbe iniziato a lavorare il giorno dopo), scoppierà la rivolta dei detenuti, che scambieranno il poliziotto per il nuovo prigioniero della cella 211. Da questo momento Juan si troverà costretto ad agire accanto al killer Malamadre, capo dei rivoltosi, in continua dialettica tra l’inevitabile doppiogioco ed una crescente pietà per i carcerati: verrà infatti a conoscenza delle violenze subite da questi da parte di alcuni secondini, accanto al completo disprezzo dei loro diritti umani. Nell’assottigliare il confine tra bene e male Monzón è abile a non ricorrere a facili forzature. I criminali rimangono tali (compiono violenze, si divertono a parlare di stupri, sono impulsivi) ma al tempo stesso un residuo d’umanità squilla in loro. Malamadre è spietato, diffida sempre di tutto e tutti ma riesce anche ad affezionarsi al destino di Juan, che gli racconta di sua moglie Elena e del bambino che porta in grembo. D’altra parte, i secondini sembrano manifestarsi come figli di una società migliore, sicuramente più civilizzata; anche in alcuni di loro tuttavia, una repressa capacità di violenza preme per manifestarsi. Riuscendovi.,Qui sta infatti il dramma del film: all’opposto di quanto accadeva in Un condannato a morte è fuggito di Bresson (1956), alla fine, a vincere tutto e tutti è il male, l’inganno e il tradimento; come se in ultima istanza l’uomo fosse delimitato dai suoi demoni. Le tensioni degenereranno, Juan verrà abbandonato dagli amici secondini e passo dopo passo ci si incamminerà verso una tragedia senza catarsi. L’intera vicenda sedimenterà in noi molti interrogativi, circa una possibile positività (o perlomeno non totale disperazione) anche all’interno di quel mondo. E quando queste domande riemergeranno acute alla fine del film, l’ultima battuta (un secondino si rivolge a noi chiedendo: «ci sono altre domande?») apparirà come un ironico sberleffo. ,Andrea Puglia