C’è tempo per ogni cosa. Per crescere. Per amare. Per cambiare. Soprattutto se sei un ragazzino, (Giovanni Fuoco) che ha perso in un colpo solo i suoi genitori e se ti affidano per legge a un tutore, un fratellastro mai conosciuto, Stefano (Stefano Fresi). E se quel fratellastro quarantenne è anni luce lontano da te, in corporatura, in cultura, in savoir faire, il futuro ti sembra ancora più difficile. Inizia così C’è tempo e si potrebbe pensare al terzo capitolo del Qoelet quando si immagina l’idea che ha ispirato il primo film di finzione di Walter Veltroni. Ma il tempo è quello che i due fratelli, Giovanni e Stefano, inconsapevolmente, si danno per capire qualcosa in più della vita e di sé stessi. Stefano è un goffo osservatore di arcobaleni (l’idea si riverbera sulle t-shirt, si reitera nel passato) che ha una compagna precaria come lui, che realizza oggetti improbabili per lavoro. La vediamo in due scene e poi “sentiamo” la sua presenza in una telefonata risolutiva del piccolo dramma che sta avvenendo.
Giovanni, invece, è elegante, saccente, e freddo anche se la notte (solo una a dire la verità) ha incubi e non riesce a dormire. Incomincia così un road movie piatto, lento e mai appassionante dove si incontrano ex fidanzate diventate lesbiche, giovani madri cantanti di cover e improvvisati bancari che, di notte, hanno tempo e testa di litigare e insultare chi come Stefano ha solo avuto l’ardire di suonare per sostituire un pianista malato. L’innamoramento (doppio), poi, ha anche il suo spazio. Leggero, situazionista, epidermico. Si potrebbe ridere pensando a quella gravidanza di 40 anni sulla quale ironizza più volte lo stesso Fresi e alla sua caparbietà nel desiderare la sinuosità corporea della cantante (Simona Molinari, nei panni di sé stessa) a tal punto da costruire una scena comica in un bagno dove Fresi tenta di prepararsi ma il rubinetto compromette tutto.
Infine le citazioni cinematografiche si sprecano. Truffaut, Monicelli, Fellini, Bertolucci, Ferreri, Risi, Moretti. Sono ben cinquanta, spiega Veltroni. E per i cinefili si spreca la caccia all’oggetto e al film. Si potrebbe dire che tutto l’immaginario cinematografico è racchiuso lì e che potrebbe essere un omaggio necessario che lascia traccia per le nuove generazioni. Però per fare un film, questo non basta. L’insistere, ad esempio, su I quattrocento colpi, dal manifesto fino anche al cameo parigino di Jean–Pierre Léaud, rischia di diventare un divertissement fine a sé stesso.
Le idee ci sono in questa opera prima, ma sono buttate lì senza un’idea di regia, di messa in scena, di recitazione. Eppure a firmare il film c’è Doriana Leondeff, una brava sceneggiatrice molto amata per la scrittura di Pane e tulipani di Silvio Soldini. Spiace, perché di film pieni di luce e di speranza, colti e veri, ce ne sarebbe bisogno. Di commedie italiane che eliminano la nostalgia per un passato cinematografico italiano di spessore si avverte l’assenza. Non bastano le buone intenzioni per realizzare un film. Lo stupore è un elemento essenziale per l’arte. E di questo ne è totalmente privo C’è tempo.
Emanuela Genovese