Il soggetto di A casa tutti bene sembra simile a quello di decine di innumerevoli film, non solo italiani: il pranzo di famiglia che apre il rubinetto dei ricordi e dei rancori, dei sentimenti e degli odi, delle ipocrisie e del disvelamento di segreti devastanti. Gabriele Muccino, nel tornare a girare in Italia, amplifica tutto ciò con una tribù numerosissima che gli permette di allestire un cast corale davvero extra large (con amici di vecchia data come Pierfrancesco Favino e Stefano Accorsi). Nei primi minuti del film si fatica a ricostruire la rete di rapporti che discendono da Pietro e Alba (non a caso, alla stampa è stato fornito con il consueto pressbook informativo anche il loro albero genealogico…), a partire dai tre figli Carlo, Sara – che è l’artefice del ritrovo di famiglia – e Paolo. I primi due sono sposati, anche se non felicemente (Sara non vede i tradimenti del marito; Carlo è al secondo matrimonio, e i genitori hanno avuto la bella pensata di invitare l’ex moglie, per la gioia della seconda consorte…), mentre Paolo, divorziato e sofferente perché non vede più il figlio, fa lo scrittore spiantato che gira per il mondo. Con loro coniugi, figli, ex amori, cugini… C’è l’amore di infanzia che riesplode, il cugino più anziano malato di Alzheimer, quello incasinato che ha sempre debiti e cerca qualcuno che lo aiuti… Quello che doveva essere un veloce pranzo nella splendide cornice di Ischia – e che in effetti scorre via liscio – si trasforma in vacanza obbligata di alcuni giorni, per via del mare ingrossato che blocca i traghetti. Tutti insieme daranno il loro peggio.
Tutti i pregi e i difetti dei più noti film italiani di Muccino (quelli americani, come La ricerca della felicità – il suo miglior film – dipendevano dalla committenza; e non è stato certo un male per lui) si ritrovano in A casa tutti bene amplificati: l’ottima capacità di dirigere gli attori si accompagna alla tendenza a portare sempre i vari personaggi a un livello di isteria che comporta urla, litigi furibondi e scene scomposte dopo che si è superato il punto di rottura; e le performance dei pur bravi attori che ne risentono. E se una certa facilità di racconto e di descrizione – nei tic, nelle tensioni, nel modo di esprimersi, nel manifestare i propri desideri – è indubbia, alla fine rimane sempre la sensazione di una rappresentazione parziale, di un narratore che si limita a raccogliere gli sfoghi di uomini e donne sempre inquieti e infelici e che lui sembra amare poco (soprattutto quelli vicini a lui per età). E che lascia sempre un passo più indietro di come erano all’inizio. Cinismo? No, piuttosto una scarsa capacità di andare oltre all’abbozzo, all’aneddoticità, alla superficialità. Si dice di tanti registi italiani, ma mai come nel caso di Muccino le sue qualità di regista meriterebbero che si affidassero a penne e soggetti altrui. Invece la sceneggiatura – scritta in questo caso a quattro mani con Paolo Costella, con la collaborazione dell’attrice Sabrina Impacciatore – è troppo spesso saldamente presidiata da chi poi la dovrà mettere per immagini. E si sa, in Italia tutti vogliono fare gli autori (non vorremmo scomodare mostri sacri, ma dice qualcosa che registi come Eastwood o Scorsese, ma anche Ron Howard, partono da sceneggiature scritte da altri?).
Nella sarabanda di battute, colpi di scena, quadretti gustosi e scene infelici ognuno troverà le sue preferenze (salvo chi rifiuterà in toto il film, ma c’è anche da dire che il regista romano sconta un pregiudizio di fondo da quando ebbe uno straordinario successo con L’ultimo bacio). Tra le cose migliori, alcune battute affidate al capo famiglia Ivano Marescotti (cresciuto orfano, e insofferente di quasi tutti i parenti figli compresi…), la tenerezza della sorella Sandra Milo che rimpiange i fratelli che non ci sono più, la prova misurata di Massimo Ghini malato precoce e piuttosto svanito (anche se l’Alzheimer sta diventando un po’ un cliché del cinema), il personaggio di Gianmarco Tognazzi che un po’ diverte e parecchie mette ansia. In realtà se la cavano bene quasi tutti, ma sempre fino a un certo punto: come detto, a quasi tutti viene chiesta la scena madre in cui lacrime, urla o gesti inconsulti stravolgono il personaggio in modo a volte bestiale, e non è spesso un bel vedere neppure per chi lo interpreta (ne pagano le conseguenze soprattutto Carolina Crescentini e Claudia Gerini)… Altri preferiranno ricordaredi di A casa tutti bene , in un contenitore comunque troppo pieno di cose, scene riuscite e spunti di riflessione che non mancano. Ma come affresco di famiglia – vista piuttosto negativamente, e a sorreggere la speranza non basta guardare ai più giovani – è lontano dai grandi esempi, italiani e non, cui pure sicuramente Muccino si è in parte ispirato. Non solo per un diverso spessore artistico (inutile ripetere la distanza di talento rispetto ai grandi della commedia di un tempo), ma anche per una visione delle cose angusta. Perché ci saranno sicuramente i personaggi decisamente immaturi che lui descrive – e in cui in parte sembra riconoscersi, senza indugiare troppo sulle sue sofferte relazioni sentimentali e famigliari – ma far coincidere il mondo con il proprio universo sembra un punto di vista davvero asfittico.
Antonio Autieri