Nei principali festival, si perpetua da decenni non solo il grande cinema – o meglio: quello va ad annate, non ce n’è sempre in abbondanza – ma anche un cinema d’autore un po’ (o molto) compiaciuto, autoreferenziale, perfino noioso. Oppure anche ben fatto, professionale, con buone qualità artistiche e interpretative ma con un cinismo soffocante che rischia di far andare di traverso la proiezione a uno spettatore pur motivato. Uno degli esempi “migliori” è l’austriaco Michael Haneke (peraltro in Austria c’è anche peggio, per esempio Ulrich Seidl: chi non lo conosce, lo può evitare tranquillamente). Il cinismo di Haneke si rivelò clamorosamente vent’anni fa con Funny Games, film che faceva uscire dalla sala con un tale umor nero nei confronti del genere umano (o del narratore, se dotati di un minimo di raziocinio), di cui dieci anni fa lo stesso Haneke girò un remake-calco in inglese per cercare di sfondare nel mercato americano), e proseguì poi con altri film. L’ultimo, il premiato Amour (2012), sembrava paradossalmente più tenero e semmai disperato nel raccontare l’anziano uomo che sopprimeva la moglie paralizzata e incapace di esprimersi dopo un ictus; lo faceva con la morte nel cuore, per non vederla soffrire e per esaudire un suo desiderio. Tra l’entusiasmo di molti e la forte e dolorosa perplessità di altrettanti: con un titolo parecchio ideologico (cui si potrebbe replicare: quello è vero amore?). Nel nuovo film passato a Cannes pochi giorni fa, Happy End (titolo ingannevole…), c’è lo stesso attore, Jean-Louis Trintignant patriarca di una famiglia alquanto malmessa nonostante ricchezza e potere: e sembra quasi un sequel di Amour, anche se il personaggio è diverso per mestiere (non più un musicista ma un industriale in pensione) e carattere (non un anziano pieno di dignità ma un vecchio acido e scontroso), ma racconta a una nipotina come e perché soppresse la moglie per non farla soffrire più, come lei gli aveva chiesto. Ma poi lo sviluppo è ancora più cupo, angoscioso e appunto cinico nel descrivere sfaceli di rapporti umani (formali e falsi), squallidi segreti, disperazione dell’anziano uomo come della piccola nipotina (entrambi cercano di farla finita…). Il finale è la degna conclusione di un film punitivo per lo spettatore: gli ottimi attori non bastano a risollevare l’umor tetro che Happy End – titolo ovviamente da prendere con le molle – provoca, anche gratuitamente: possibile che nessuno si salvi mai, umanamente, in questo genere di film?

Niente di paragonabile, comunque, a The Killing of a Sacred Deer del regista greco Yorgos Lanthimos, altro autore europeo che si diverte a picconare ogni parvenza di umanità. Tra i suoi bersagli, spesso, anche la famiglia. Niente di nuovo, eppure i suoi primi film in patria – oltre tutto parecchio lenti e noiosi – si sono fatti strada nei festival internazionali e vinto premi (come altri connazionali: nel cinema si va a mode, prima la Danimarca, poi la Romania – paesi che in effetti hanno portato alla ribalta ottimi registi – e poi ahinoi la depressissima Grecia che sforna autori uno più deprimente dell’altro). Il pubblico italiano, per sua fortuna, se li è risparmiati. Ora Lanthimos ha fatto il salto, convincendo produttori inglesi e attori internazionali: due anni fa l’apocalittico The Lobster, ora questo nuovo film che vede ancora protagonista Colin Farrell (meglio in The Lobster) e Nicole Kidman, coppia borghese ricca e apparentemente felice insieme ai due figli, la cui vita viene stravolta da un adolescente che irrompe nella vita della loro famiglia. Sembrerebbe in cerca d’affetto, in realtà quel che vuole è vendicarsi per una grave perdita che ha subito: qualcuno, in quella famiglia, “deve” morire per pareggiare i conti. Quello che potrebbe essere un thriller intrigante, anche disturbante ma “serio”, degenera in un finale terrificante e gratuito nel suo sadismo: la forma può richiamare certi classici del passato (anche se ormai è troppo facile citare Hitchcock), ma questo cinismo da quattro soldi, non frutto di una posizione personale motivata ma chiave espressiva banale e ripetitiva negli autori da festival che credono ancora nella “poetica” del pugno nello stomaco, è tutta roba contemporanea. Sconvolgere per avere successo (ci viene sempre in mente l’immagine di alcuni anni fa di un autore messicano, poi peraltro diventato grande regista a Hollywood: si presentava nei festival con film angosciantissimi, ma poi sulle riviste internazionali lo si vedeva ridere a crepapelle nei party glamour, il furbacchione…). Speriamo che anche questa moda del cinismo festivaliero e autoriale, che sta facendo seri danni al cinema, finisca presto. Non serve al pubblico, tanto meno a film di questo tipo che non riescono più a ottenere numeri significativi. In realtà, purtroppo, riescono ancora ad abbindolare giurie dal premio facile. Che Pedro Almodovar, Paolo Sorrentino e compagnia giudicante ci risparmino quest’anno i premi a simili nequizie.

Antonio Autieri

Nella foto: Nicole Kidman e Colin Farrell in The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos