Se la musica popolare contemporanea è segnata dall’irriconoscenza, ci pensa il cinema a portare un po’ di giustizia, a saldare qualche debito inconfessato, a colmare le lacune della memoria. Chi va a vedere Cadillac Records, coglie l’occasione di condividere un atto riparatore e contribuisce alla conoscenza di un film che vale comunque la pena vedere. Vi si raccontano nascita, traversie e tramonto di una casa discografica davvero esistita, la Chess Records, e del suo fondatore, Leonard Chess, il cui amore per la musica,la ricchezza e le Cadillac rende immune dal pregiudizio razziale cui pochi bianchi, negli anni cinquanta, sapevano sfuggire. ,La parte dell’emigrante polacco che nel 1954 fondò a Chicago l’etichetta col suo nome (assieme al fratello Phil, che però il film omette) è di Adrien Brody: secondo il topos dell’americano che si fa da sé, comincia dal basso e, con appassionata disinvoltura, mosso da pari attaccamento a soldi e talenti, recluta via via Jeffrey Wright, nei panni di Muddy Waters, Columbus Short, che dà il fiato all’armonica di Billy Walters, Cedric the Entertainer, che impersona Willy Dixon, Mos Def, che ridà vita a Chuck Berry, Eamon Walker, un redivivo Howlin’ Wolf, e infine Beyoncé Knowles, che presta voce e bellezza a Etta James.,Gli attori assomigliano non poco ai loro personaggi e ne fanno rivivere la parabola, brevissima nel caso di Billy Walters, forse il più grande armonicista vivente, breve e discontinua nei successi, come nel caso di Muddy Waters, uno dei primi chitarristi a suonare amplificato (e, nel film, collega la cassa acustica dal marciapiede all’impianto elettrico di casa sua!), padre ignorato di tantissimi musicisti, che ben presto lo supereranno nei mutevoli gusti del mercato. Soltanto i Rolling Stones saranno leali nel riconoscergli il debito del loro stesso nome. Breve e intensa la storia del primo nero che, a sentirlo nei dischi e alla radio, non veniva riconosciuto come tale: si tratta di Chuck Berry: se non è stato lui ad inventare il rock, sicuramente ha insegnato a tutti come suonarlo e, nel film, quando infuriano le violenze ai danni dei neri, è suggestiva la scena della sala concerto, in cui i giovani bianchi e neri, divisi dalla polizia e dalle transenne, le attraversano di schianto, per ballare mescolati. Lunghissima invece la curva esistenziale di Etta James, perché canta ancora oggi; è sicuramente romanzata, ma è bella, la scena in cui Adrien Brody insegna a Beyoncé come cantare davvero con l’anima: l’esecuzione commossa che ne consegue vale il film.,La Cadillac infine, che dà il titolo alla pellicola, è lo status symbol dell’epoca ma anche della nostalgia; è il benefit che puntualmente il produttore discografico concede a se stesso, come ai suoi cantanti, dopo il primo successo; nello stesso tempo è un elemento ricorrente del racconto, perché la successione dei diversi modelli scandisce il tempo che passa, e della fotografia, poiché tante inquadrature sembrano tratte pari pari dalle immagini pubblicitarie con cui la Casa automobilistica di Detroit prometteva negli anni cinquanta un’auto e una vita da sogno.,Forse non tutti sanno che “Surfin U.S.A.”, il secondo disco dei Beach Boys divenuto l’inno dei surfisti della California, è in realtà il plagio di “Sweet Little Sixteen” di Chuck Berry e che il debito è stato riconosciuto solo al prezzo di una lunga causa. Di certo pochi conoscono la dichiarazione resa da B.B. King alla morte di Muddy Waters: “Dovranno passare anni e anni prima che la maggior parte della gente realizzi quanto è stato grandioso per la storia della musica americana”. ,Il film firmato da Darnell Martin sembra pensato e realizzato per confermare la profezia.
Mario Triberti