Film più atteso del concorso della scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia e dal 28 settembre su Netflix, Blonde racconta da un punto di vista inedito la vicenda dell’icona della Hollywood anni 50 Marilyn Monroe. La trama del film si basa sull’omonimo libro di Joyce Carol Oates, opera che segue le vicende della Monroe a partire da quando era solo una bambina di nome Norma Jean persa nella Los Angeles degli anni 30, con una madre mentalmente instabile e un padre mai conosciuto.
Intorno alla mancanza della figura paterna s’impernia peraltro l’intera struttura narrativa del film diretto e scritto da Andrew Dominik: l’assenza della figura genitoriale maschile durante l’infanzia sembra infatti porsi come causa scatenante delle difficoltà relazionali dell’attrice adulta, donna dotata di tutto il carisma necessario per diventare una star, ma incapace di instaurare rapporti sani con sé stessa e con gli altri. Dagli esordi all’affermazione della diva, dall’apice del successo alla caduta, la parabola della donna-Marilyn non riesce neanche per un singolo frame a scrollarsi di dosso i persistenti riferimenti a una onnipresente mascolinità tossica inevitabile, capace addirittura di trasformare la Monroe in un pezzo di carne impossibilitato a giudicare o reagire, in una sorta di perenne stato di sottomissione alla volontà altrui.
Questo continuo sballottarsi da un evento drammatico all’altro si traduce peraltro in un caos narrativo che rallenta e complica inutilmente lo scorrere della trama, un racconto che (troppo) spesso si sovrappone a scene onirico-incubi che poco aggiungono alla costruzione del personaggio. Se il lavoro di scrittura e messa in scena di Blonde non rende in alcun modo un buon servizio alla figura storica di Marilyn Monroe, l’attrice protagonista Ana De Armas dimostra di aver studiato con grande cura il personaggio e dà di sé una prova attoriale impeccabile, anche se probabilmente una migliore direzione e un maggior equilibrio nella struttura narrativa avrebbero trasformato la sua interpretazione in una pietra miliare della storia del cinema. A voler aggiungere altro materiale alla catastrofe, spostandoci sul piano tecnico si potrebbero citare gli inspiegabili cambi di frame rate (4:3, poi 16:9, poi 9:16, poi proporzioni intermedie, e così via), un continuo, fastidiosissimo e insensato alternarsi di scene in bianco e nero e scene a colori, e una generale frenesia registica che di certo, nel già ciclopico caos dell’intera operazione, non aiuta a migliorare il confort della visione…
Maria Letizia Cilea