Venezia, 1947. Hercule Poirot si è ritirato in pensione e ha scelto la meravigliosa città come nascondiglio. Dove peraltro viene assediato da persone che desiderano possa aiutarli sui più svariati casi: per questo ha perfino assoldato una guardia del corpo che protegge la sua privacy giorno e notte. Ma un’amica scrittrice lo convince, suo malgrado, a partecipare a una seduta spiritica nella casa di Rowena Drake, una cantante d’opera: un palazzo considerato maledetto e stregato (come peraltro ogni casa veneziana, sostiene la guardia del corpo), per la fosca leggenda che narra della morte di numerosi bambini. La seduta spiritica dovrebbe far sì che una famosa medium – di cui la mente razionale di Poirot diffida subito – evochi lo spirito di Alicia, figlia di Rowena la cui morte per annegamento non è affatto chiara: è stato un suicidio? O qualcuno l’ha spinta giù dal palazzo? Anche per questo motivo la madre ha voluto varie persone attorno a quel tavolo, tra cui il giovane uomo che lasciò sua figlia, che sprofondò nel dolore. Ma alla morte della ragazza ne seguiranno altre…

Vedere in Assassinio a Venezia Hercule Poirot come un ex investigatore ormai in pensione è poco credibile, anche se in vari romanzi di Agatha Christie in effetti era rappresentato in maniera simile (ma la rappresentazione di persone che stazionano e perfino dormono davanti casa sua è un po’ grottesca), salvo poi essere catturato da un nuovo caso. E così è scontato che avvenga in questo nuovo film diretto e interpretato da Kenneth Branagh, che al contrario dei precedenti non è la trasposizione fedele di un romanzo, ma si limita a una debole ispirazione a Poirot e la strage degli innocenti, in originale Hallowe’en Party. E con una festa di Halloween ci ritroviamo, anche se nell’incongrua Venezia del secondo dopoguerra. Tante cose ci possono sembrare strane, dal vedere Riccardo Scamarcio guardia del corpo di Poirot / Branagh (con un nome un po’ ridicolo, Vitale Portfoglio), che fa tanto filmone internazionale alla James Bond, fino ai tocchi horror che sembrano volerci portare, e soprattutto voler portare il detective della razionalità estrema, in un terreno metafisico e spettrale. Ma Poirot, che si presenta in una veste inedita e fragile in quanto segnato dagli orrori concretissimi di due guerre mondiali che lo portano a dire di non credere in Dio, tanto più non crede ai fantasmi e alle leggende. E con pazienza, scartando come sempre varie ipotesi messe in campo soprattutto per giocare al gatto con il topo con i vari indagati, inizia a dipanare la matassa, in un caso che mette comunque a rischio le sue convinzioni e il suo razionalismo.

Assassinio a Venezia – girato in parte a Venezia e in parte negli studi Pinewood di Londra – non ha l’effetto sorpresa di vedere un Poirot più affascinante del solito come nel nuovo Assassinio sull’Orient Express che giocava oltre tutto su una magnificenza scenografica, ma è più coraggioso del successivo Assassinio sul Nilo che riproponeva la trama del romanzo omonimo puntando soprattutto su un certo tasso di facile erotismo. Stavolta, come detto, si punta sulla chiave dell’horror goticheggiante (e il figlioletto del medico legge, guarda caso, un romanzo di Edgar Allan Poe, vera passione di Poirot stesso), esaltati da una Venezia cupa, piovosa e terrificante.

Gli elementi classici del giallo sono, però, tutto sommato rispettati: ci sono false piste seminate intenzionalmente e veri indizi che comunque non sfuggono al fiuto del detective belga. La soluzione arriverà, convincente e ben illustrata. Il film si fa seguire, grazie ad alcuni personaggi interessanti (in particolare il bambino e i due fratelli ungheresi) e un cast come sempre di stelle in cui convincono soprattutto Tina Fey che è la scrittrice Ariadne Oliver, Kelly Reilly nei panni della cantante Rowena Dake e Camille Cottin in quelli della governante Olga Seminoff; ma una citazione la merita anche il piccolo Jude Hill, già alter ego di Branagh nell’autobiografico Belfast, mentre è più convenzionale Jamie Dornan, suo padre in entrambi i film, e Scamarcio se la cava senza macchia e senza lode. Non giureremmo che il film rimarrà  scolpito nella memoria, ma il mistero è intrigante quanto basta per intrattenere per due ore scarse, regalandoci anche un sorriso nel finale.

Antonio Autieri

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