Ideale contrappunto allo splendido quanto sottovalutato First Man di Damian Chazelle uscito un anno fa, questo documentario (che utilizza ore di materiale filmato cinquanta anni fa dalla Nasa e poi inspiegabilmente messo da parte) offre un ritratto vividissimo della missione spaziale che cambiò per sempre il modo in cui vediamo il cielo. Una missione che per molti versi, come dice la canzone di John Stewart che gli astronauti ascoltano su un registratore al rientro della missione, fu soprattutto un’opera collettiva: “Just a lot of people doing the best they could”.

I filmati d’archivio sono scanditi dallo scorrere dei giorni e delle ore della missione, con i loro riti (il buon giorno e la buonanotte, i controlli dello stato di salute), e ci riportano il passato vicinissimo, reale e nello stesso tempo fantascientifico (il colore e il formato 70 mm li fanno assomigliare ai film d’epoca). L’enorme quantità di materiale è stato montato con intelligenza e amore dal regista Tod Douglas Miller, pochi sintetici intermezzi grafici rendono chiare le varie fasi della missione, mentre per il resto sono le voci del passato a portarci la loro storia.

Solo un anno prima della missione, Stanley Kubrick aveva incantato le platee con le fantascientifiche atmosfere di 2001: Odissea nello spazio (e nasce forse da lì l’inscalfibile quanto illogico mito del falso allunaggio su cui questo documentario dovrebbe mettere la parola fine) e forse per questo fa ancora più impressione vedere le facce sorridenti di quei tre uomini che si preparano ad affrontare il viaggio più lungo mai compiuto dall’uomo in una navetta angusta che sembra fragile come una scatoletta. L’imprevisto è dietro l’angolo, dalla valvola che perde fino a pochi minuti prima della partenza alle spie che si accendono durante la discesa sulla Luna; eppure tutto va, un po’ miracolosamente, per il verso giusto (non sarà sempre così, come ha raccontato venticinque anni fa Apollo 13).

Il senso di essere parte di qualcosa di più grande, di cambiare per sempre lo sguardo dell’uomo sulla natura e su di sé è la nota di fondo di tutto, accompagnata da una certosina attenzione ai dettagli, con i controlli ripetuti, le squadre che si danno il cambio a seguire ogni fase della missione. È uno spettacolo vedere le facce delle decine di uomini (e qualche donna) coinvolti nell’operazione, la tensione e i sorrisi non di circostanza alla fine, l’umorismo che serve a scaricare la tensione. Si sente in ogni momento della cronaca palpitare l’emozione dell’uomo che si lancia verso l’ignoto per un bisogno insopprimibile che lo accompagna dalla sua nascita, quando l’ignoto era forse una collina più il là oltre il proprio villaggio.

Il discorso di J.F. Kennedy, che solo otto anni prima aveva inaugurato l’avventura spaziale americana, appartiene a una politica con un respiro molto diverso da quello attuale , eppure non si tratta di semplice retorica. In questa atmosfera sospesa, in cui non solo l’America ma tutta l’umanità per un momento sembra respirare insieme, davvero si può credere che l’Apollo porti con sé, sulla Luna e ritorno, non solo il desiderio di conoscenza ma anche il senso di essere parte di un’unica famiglia fatta per qualcosa di più grande, un richiamo verso l’ignoto e il mistero che rende tutti fratelli.

Laura Cotta Ramosino