Con una rudimentale mongolfiera che spicca il volo inizia Andrei Rublev, il secondo film e capolavoro di Andrei Tarkovskij. Fin da quel primo stacco da terra lo spettatore è portato da leggeri movimenti della telecamera in un tempo e in un luogo in cui non siamo meno confusi, stupiti o terrorizzati dello stesso protagonista. Tutto il tempo del film viene praticamente trascorso nel fango e nel caos della Russia medievale, trascinati come siamo dalla marea della storia, attraverso raccapriccianti incursioni tartare, bizzarri rituali pagani, carestie, torture e difficoltà fisiche. Quel che il film ci fa sperimentare è la vita in ogni aspetto: dalle gocce di pioggia che cadono su un fiume fino agli eserciti che saccheggiano una città, e tutto questo accade spesso all’interno della stessa ininterrotta sequenza.

Pochi personaggi sono chiaramente identificati, e in realtà poco anche accade effettivamente; e ciò che accade non è necessariamente in ordine cronologico. Il protagonista è un pittore di icone ed è considerato in patria l’eroe nazionale del XV secolo, eppure non lo vediamo mai dipingere, né far nulla di particolarmente eroico. In molti degli episodi del film non è affatto presente e nelle ultime fasi fa addirittura voto di silenzio. Ma in un certo senso, non c’è niente da “capire” su Andrei Rublev. Non è un film che ha bisogno di essere elaborato o addirittura compreso: c’è solo da viverlo e lasciarsi stupire.

Perché Andrei Rublev opera secondo una diversa comprensione del tempo e della storia. Pone domande sulla relazione tra l’artista, la società del suo tempo e le sue convinzioni spirituali, ma non cerca di rispondere. Già nel 1962 Tarkovskij scriveva: «Nel cinema non è necessario spiegare, ma agire in base ai sentimenti dello spettatore, e l’emozione che si risveglia è ciò che provoca il pensiero».

Ma nonostante la sua apparente assenza di forma, Andrei Rublev è strutturato con precisione e del tutto esteticamente coerente. Agli atti di creazione vengono fatti seguire atti di distruzione, ci sono temi di fuga, di visione, di presenza e di assenza. E poi ci sono i cavalli, gli animali favoriti di Tarkovskij: cavalli che rotolano, cavalli che si lanciano in battaglia, nuotano nel fiume, cadono dalle scale, trascinano uomini fuori dalle chiese. A volte lo schermo ricorda un vasto dipinto di Bruegel che prende vita, o l’arazzo della battaglia di Hastings che si srotola. Non sappiamo necessariamente, o abbiamo bisogno di sapere, “come funziona” Andrei Rublev o cosa ci stia dicendo, ma alla fine non abbiamo dubbi che Tarkovskij abbia raggiunto il suo scopo.

Perché proprio negli ultimi minuti, il film dà il suo meglio: lo schermo esplode di colore e siamo finalmente pronti per vedere i dipinti del pittore girovago in un primo piano estremo, che arrivando alla fine di questo viaggio epico possono ridurre uno spettatore fino alle lacrime. Mentre la camera esamina i dettagli, i minuscoli gioielli sull’orlo di una veste, le linee che formano un’espressione compassionevole sul viso di un angelo, la doratura appannata di un’aureola, ci sembra di capire tutto ciò che è presente in ogni pennellata: Andrei Rublev ci ricorda cosa sia la bellezza. È il cinema più vicino alla trascendenza che a uno spettatore sia concesso di guardare.

E sembra incredibile che questo film sia stato realizzato nell’URSS degli anni 60, accendendo ogni sorta di controversia. La sua visione religiosa cristiana offendeva le autorità sovietiche, che si aspettavano solo un film patriottico; la sua forma impegnativa ha portato a vari tagli nelle sue edizioni estere (una tra tutte: per il pubblico britannico sono state tagliate le scene di un cavallo che cade e agonizza). Dopo l’apertura a Mosca nel 1966, il film è stato subito tolto dalla circolazione ed è rimasto nascosto fino al festival del cinema di Cannes del 1969 (dove vinse il premio della critica internazionale). In Italia, ultimo tra i paesi occidentali, arrivò solo nel 1975.

Beppe Musicco