Per il suo debutto alla regia l’attore scozzese Ewan McGregor sceglie con American Pastoral l’impegnativo compito di adattare un classico della letteratura del XX secolo, l’omonimo romanzo premio Pulitzer di Philip Roth: un’opera complessa e dalle grandi ambizioni che questa realizzazione molto classica riesce a rendere solo in parte.
McGregor si ritaglia la parte del protagonista, Seymour Levov, soprannominato lo Svedese perché a dispetto della sua origine ebraica (orgogliosamente rivendicata dal padre, proprietario di una fabbrica di guanti, in una delle prime scene del film) ha un aspetto decisamente “ariano”, comunque da vero figlio dell’american dream; un destino che almeno nella prima parte della vita sembra incarnare perfettamente. E l’interpretazione dell’attore scozzese (accanto a quelle altrettanto sentite di Jennifer Connelly nei panni di sua moglie e di Dakota Fanning in quelli piuttosto antipatici della figlia ribelle) è senza dubbio uno dei punti forti della pellicola.
A fronte di un testo di partenza complesso, il film si concentra sulla dimensione familiare dei Levov, inizialmente idilliaca: una fabbrica funzionante e dal volto umano (la maggior parte degli affezionati dipendenti sono afro-americani), una bella casa in campagna, due genitori affettuosi e una figlia bella il cui unico difetto è una leggera balbuzie (che pure la manda in crisi). Arriva il Sessantotto e arriva l’adolescenza della dolce Merry, e in un secondo la piccola (che pure aveva dato i segni di un affetto lievemente morboso nei confronti del padre) si trasforma nella teenager incubo di qualunque genitore. Nei suoi occhi imbevuti dell’ideologia del tempo (che passa agevolmente dal pacifismo al marxismo, al sostegno al potere nero, che suona lievemente comico sulla bocca di questa biondissima borghese) la figura paterna, a dispetto della sua morbidezza, si trasforma nel simbolo di un sistema marcio e degno di essere distrutto.
La prospettiva, per una scelta più o meno consapevole, resta comunque quella dei genitori sconcertati e progressivamente distrutti dall’aggressività della figlia prima e dalla sua scomparsa poi. Del resto né la psicologa progressista né le compagne di lotta di Merry fanno una bella figura, ma sembrano figurine capaci solo di ripetere slogan anche contro la realtà dei fatti. Merry viene coinvolta nell’esplosione del locale ufficio postale (che fa morire l’ignaro e incolpevole impiegato): è l’inizio di una discesa agli inferi che distruggerà anche il rapporto tra i coniugi, che affrontano una sorta di “lutto bianco” in modi diametralmente opposti. Lo Svedese, animato dalla fede incrollabile nella possibilità di ritrovare la figlia, si ritrova ad affrontare ambigui rappresentanti di una contestazione che non capisce; sua moglie Dawn, tormentata dal senso di colpa e di inadeguatezza, precipita prima nella follia e poi in una testarda negazione.
Il ritratto della famiglia borghese che ne esce (e che in un certo dovrebbe essere archetipico) è devastante, anche se non si può non provare commozione per questi genitori che non sanno da che parte prendere la figlia. Ma rischia la semplificazione eccessiva e non riesce ad agganciarsi in modo davvero convincente all’attualità, quando forse potrebbe, guardando a tanti altri giovani di oggi conquistati alla causa di ideologie che i loro padri non riescono a comprendere. Chi ha letto il romanzo di Roth farà probabilmente più fatica ad apprezzare un’opera che di necessità lascia fuori o affronta solo tangenzialmente alcuni dei suoi temi, non ultimo il disagio e il “senso di colpa” dell’ebreo “ariano” Levov, condannato dal suo aspetto a trascendere la sua origine, ma ad essa inevitabilmente riportato.
Quello che ne esce è un film di mestiere ma forse non indimenticabile, che riesce a coinvolgere solo a tratti e soprattutto quando tocca le corde più profonde delle dinamiche affettive, piuttosto che quando tenta la via di una riflessione politica.
Laura Cotta Ramosino