Antonio, operaio in un cantiere navale, vive da solo con il figlio Gabriele diciassettenne. Ex pugile dilettante, cerca di tirar su il figlio nella boxe, con gli allenamenti in una palestra improvvisata, e poi proteggendolo e “educandolo” ruvidamente. Come fa in genere nella vita: dalla moglie/madre albanese che li ha abbandonati, ma che vorrebbe rivedere il ragazzo, come da possibili vizi, amori, sbandamenti dalla traiettoria di successo sportivo che ha immaginato per lui. A compensazione di fallimenti e frustrazioni, certo, ma anche come frutto di un amore tanto cieco quanto sincero e appassionato. Si soffre, nella prima parte, a vedere questo padre “incarnato” (davvero, con tutta la fisicità di cui è capace) da quel grande attore che è Sergio Castellitto. Il suo rapporto con il figlio è reso da tante scene mirabili per pudore e sobrietà, come quando – dopo aver accettato il consiglio di un manager di lasciare andare Gabriele nella sua scuderia, per non tarpare le ali della sua crescita – fa un complimento breve ma commosso al figlio dopo una vittoria, ricambiato da un sorriso dolce e disarmato del ragazzo: timido, pieno di tic, non ancora inaridito – come il padre – dai colpi dell’esistenza (molto promettente il giovane attore Gabriele Campanelli). Poi, una notte con una ragazza rumena (amore acerbo che il padre teme, come fattore di “disturbo”) rompe per sempre il rapporto tra loro che finisce in tragedia.,Come sempre in film dove un colpo di scena (qui in realtà sono due) segna profondamente la trama c’è l’incertezza se dire e quanto: molte recensioni hanno svelato fin troppo di questo film. Soluzione forse troppo facile, ma corretta: chi vuole vedere il film senza rovinarsi la “sorpresa” si fermi qui. E ci legga caso mai dopo la visione.,Sì, perché in questo caso i colpi di scena sono anche i difetti maggiori del film, come stigmatizzato dalla maggior parte della critica: prima l’incidente mortale che spezza la vita del giovane Gabriele, poi l’espianto degli organi che regala il suo cuore a un altro giovane. Che il padre vorrà conoscere, illudendosi così di veder prolungare la vita del figlio, salvo poi scoprire che il ragazzo in questione, Ivan, che va a trovare a Gorizia si fa chiamare Sonia ed è un trans. Sono colpi di scena che “arrivano” male allo spettatore (l’incidente è davvero mal girato e poco credibile nella sua dinamica), e che minano l’impianto dell’intero film. In mezzo si perdono tanti personaggi (uno su tutti: la ragazza rumena che era stata la causa scatenante del litigio); soprattutto, sembra di assistere a due film diversi. E fin qui, in fondo, ripetiamo cose già scritte da tanti. Peccato, perché la prima parte dell’opera seconda di Alessandro Angelini (che si fece apprezzare all’esordio con L’aria salata) era davvero intensa e a tratti commovente. Poi, quando dovrebbe commuovere di più o far riflettere, sbanda. Colpa, probabilmente, di una sceneggiatura non ben registrata (che era un po’ l’aspetto carente anche del film precedente, riscattato da regia e interpretazioni).,Sul finale, però, ci sono alcuni spunti comunque di interesse: la scena – per quanto non imprevedibile – in cui Antonio/Castellitto sembra ripetere i gesti da allenatore premuroso-ossessivo (quell’“alza la testa” ripetuto) con Ivan/Sonia alle prese con un corso di nuoto. Quasi – dopo l’iniziale, ulteriore, momento di rabbia – a inventarsi un nuovo rapporto paterno. Che comunque lo cambierà per sempre. Come confermano le scene finali in ospedale, quando Antonio si trova ad accudire un neonato di una donna clandestina, a rischio di morte. Un ulteriore aggiungere carne al fuoco che confonde le idee, ma che rivela il cambiamento dell’uomo che “fa la cosa giusta” prendendo finalmente un’iniziativa e una posizione “cordiale” e non difensiva di fronte alla vita.,Antonio Autieri,

Alza la testa
Un padre, legato in maniera possessiva al figlio, deve ricominciare tutto da capo,