Il film si apre con una voce fuori campo che lancia un criptico messaggio a metà tra una preghiera e un ultimo addio in cui l’anonimo mittente dichiara di non avere più le forze per continuare a lottare, di averci provato ma di aver perso tutto e di essere rimasto solo con “corpo e anima”. Una scritta in sovrimpressione ci riporta a otto giorni prima: siamo nel bel mezzo dell’Oceano Indiano e osserviamo un uomo di mezza età svegliato di soprassalto all’interno del suo yacht dall’acqua che sta entrando copiosa sottocoperta. L’imbarcazione, in mare aperto, ha urtato un container a galla tra le onde procurandosi una falla sul lato sinistro dello scafo. La reazione dell’uomo è da subito lucida e pragmatica: prima si preoccupa di disincagliare la barca, poi recupera dalla stiva gli oggetti più importanti, successivamente lavora per rattoppare lo squarcio. È l’inizio di una lunga, lunghissima serie di operazioni che il protagonista compie con meticolosità e determinazione, senza farsi mai prendere dal panico, per aggiustare una situazione ulteriormente complicata dal fatto che la radio di bordo è stata resa inutilizzabile dall’acqua. L’uomo inizia dunque a darsi da fare con carte nautiche e manuali, imparando a piccoli passi da un libricino a seguire i segni naturali per trovare la giusta rotta. Ma ben presto dovrà fronteggiare un nuovo pericolo, annunciato da minacciose nubi nere che si stagliano all’orizzonte: rapidamente si troverà in mezzo ad una tempesta che porterà la situazione a precipitare, costringendo l’uomo a prendere decisioni drastiche. Senza entrare troppo nel dettaglio (parte dell’interesse del film risiede proprio nella curiosità che suscita l’osservare come l’uomo di volta in volta, in una situazione che continua a peggiorare, cerca di porre rimedio alle sue disavventure), diciamo che l’odissea continuerà: sperduto in pieno oceano, con pochi metri a disposizione su un mezzo instabile, dovrà fare i conti con l’assenza di acqua potabile e l’impossibilità di governare l’imbarcazione, continuando a perseverare nelle sue minuziose operazioni (lo vediamo improvvisare una canna da pesca e inventare un modo per desalinizzare l’acqua marina), sempre più affaticato, stanco e malandato.
J.C. Chandor, che già aveva descritto con rigore e lucidità l’asprezza della crisi in Margin Call, realizza un’opera intensa e ambiziosa vista l’assoluta assenza di dialoghi (è presente solo una leggera colonna sonora, mentre è il rumore cadenzato e monotono delle onde a farla da padrone). La sua originalità rischia di essere anche il maggiore limite, dato che, pur mantenendo viva la curiosità sull’evolversi della situazione, la ripetitività dei contenuti può risultare monotona e l’opera poggia gran parte del suo peso sulla recitazione convincente di Robert Redford. La sceneggiatura lo indica come “Il nostro uomo”, quasi a sottolineare il taglio scientifico con il quale viene osservato: l’angolatura con la quale vengono raccontati i suoi tentativi di raddrizzare la situazione è quasi documentaristica; lo vediamo tagliare, strappare, incollare, annodare e affaccendarsi in un susseguirsi ostinato ma spesso inutile di piccole operazioni che trasmettono l’idea della tenacia con la quale l’uomo cerca di restare aggrappato alla vita, ma anche la sua impotenza di fronte alla passività della natura (emblematica l’inquadratura dall’alto che sottolinea la sproporzione tra l’imbarcazione e la maestosità del mare). Dalla vicenda è esclusa ogni dimensione di abbandono alla fiducia in qualcos’altro o di preghiera, il protagonista poggia tutte le sue possibilità di sopravvivenza sulle sue forze e non emerge mai quale sia il punto che mantiene viva la speranza del naufrago (come invece accadeva in Cast Away, film diverso ma che a tratti lo ricorda). Un aspetto che contribuisce a formulare un giudizio disperato, intuibile sin dall’eloquente titolo, sulle umane vicende.
Pietro Sincich