Ennesimo remake live-action di un classico Disney del 1992, questa volta affidato alla regia di Guy Ritchie, che ha un solido curriculum in film di azione con una vena di commedia irriverente, ma che qui non brilla particolarmente in una storia che segue abbastanza fedelmente l’originale, salvo l’immancabile (visti i tempi), e in questo caso un po’ invadente, spruzzata di empowerment femminista. Restano le canzoni che conoscevamo dai tempi del cartoon (dalla romantica “Il mondo è mio” alla scatenata presentazione del genio “Un amico come me”) con qualche aggiunta scritta appositamente per la principessa, che diventa la portavoce delle donne oppresse che non vogliono tacere. La resa italiana dei pezzi musicali, a dire il vero, non è sempre ottimale, non tanto nella scelta degli interpreti quanto nella mancata corrispondenza con il labiale originale, che potrebbe risultare qualche volta un po’ fastidiosa.

Se il giovane Aladdin, il “diamante grezzo” di cui l’ambizioso visir Jafar si serve per procurarsi la lampada magica, ha comprensibili problemi di autostima causati da un’infanzia difficile tra i vicoli di Agraba e pensa di dover essere un principe per poter conquistare l’amata, Jasmine è cresciuta reclusa tra le mura del palazzo del padre, terrorizzato all’idea che la figlia faccia una brutta fine come sua madre. La Jasmine originale era uno spirito libero che anelava a scoprire il mondo (e infatti Aladdin la conquista più con un giro notturno in tappeto volante che con le ricchezze esibite a corte), qui la principessa ha mire più “politiche” e al passo con i tempi: invece di aspettare un principe da sposare vuole diventare lei il sultano e cambiare il destino del suo popolo. No alle mire espansionistiche e militaresche di Jafar e più politiche sociali in omaggio all’eredità materna (la nostra felicità non può essere maggiore di quella del meno felice dei nostri sudditi). Ogni riferimento alla situazione politica attuale è decisamente voluto.

Non c’è niente di male, ovviamente, nel voler aggiornare una storia dopo trent’anni, se non si avesse l’impressione di un messaggio martellato più che suggerito, che anziché integrare la storia originale la ingessa ingabbiandola in una morale preordinata. Funziona meglio, anche se non è sviluppato a dovere, l’accostamento tra Aladdin e il cattivo Jafar, lui pure uomo partito dal basso, divorato dall’ambizione e dal non volersi mai sentire secondo, e incapace di capire la semplice verità che nessuna ricchezza al mondo potrà placare la sua sete di riconoscimento. Una lezione che Aladdin, imbranato e insicuro con la ragazza che ama quanto spudorato e impudente nella sua attività ladresca, impara invece dall’amicizia con il genio (in questa nuova versione interpretato da Will Smith, che trova una chiave di interpretazione convincente rispetto all’indimenticabile Robin Williams che gli dava voce nel cartoon).

Se l’estetica del film, a tutti gli effetti un musical, rimanda a quella dei film di Bollywood, convince meno – visto il livello tecnico a cui ormai hanno abituato gli ultimi adattamenti Disney (basti pensare all’ottimo Il libro della giungla di un paio di anni fa – la computer grafica meglio impiegata nella zona della grotta della lampada che per le strade e nel palazzo di Agraba.

La mano del regista (che firma anche l’adattamento della sceneggiatura dall’originale) si sente probabilmente meno di quanto si sarebbe auspicato. Ma questa forse è la condanna degli autori che decidono di prestare il loro talento alla multinazionale di Topolino, che, soprattutto in questi remake live action, sembra decisa più a giocare sul sicuro con gioielli di famiglia (ripuliti e aggiornati ad un’agenda vagamente liberal che rischia di risultare un po’ moralista, vedi anche il poco riuscito Dumbo) che a creare un canone alternativo per le nuove generazioni.

Laura Cotta Ramosino