Alla 78ma Mostra di Venezia (1-11 settembre) arriva in concorso Żeby nie było śladów (Leave no traces). Maggio 1983, i diciottenni Grzegorz e Jurek decidono di festeggiare il loro diploma passando un pomeriggio per le strade di Cracovia; qualche scherzo e un paio di bicchieri di vino li accompagnano, finché alcuni agenti della Milizia Civile non decidono di trattenerli, li trascinano in commissariato e li picchiano per essersi rifiutati di mostrare i documenti. Grzegorz viene portato in ospedale, dove i medici cercano di attribuire il suo malessere all’alcol e al presunto uso di sostanze; il ragazzo ha in realtà stomaco, appendice e fegato perforati. Morirà la notte stessa in ospedale. Quando la madre Basia deciderà di denunciare l’accaduto, Jurek, unico testimone del fatto, diventerà il nemico numero uno dello Stato, ancora sotto il regime comunista e provvisto di un apparato militare violento e prevaricatore.
È un bel pezzo di cinema politico, il film di Jan P. Matuszyński, di quelli ben raccontati, capaci di tenere lo spettatore incollato allo schermo e dargli la netta sensazione di star assistendo a una storia di spessore. Tratto dall’omonimo libro di Cezary Łazarewicz, ispirato a sua volta alla storia vera dell’assassinio di Grzegorz Przemyk, Leave no traces si regge tutto sulla solida sceneggiatura scritta da Kaja Krawczyk-Wnuk, che oltre a ricostruire i fatti con chiarezza ed efficacia, è capace di tenere un ritmo da thriller per ben 161 minuti senza mai annoiare. Complice di questo dinamismo è peraltro la stratificazione della storia stessa, che viene sviscerata secondo i vari punti di vista dei personaggi coinvolti, seguendone credenze e ideologie: le storie della morte di Grzegorz, della fuga di Jurek e dell’ondata di rivolta popolare provocata dall’evento vengono dunque studiate secondo la prospettiva dello stato sopraffattore, secondo l’occhio dell’opinione pubblica – interna ed estera – ma anche e soprattutto a partire dall’esperienza privata di quei cittadini, madri, padri, amici e attivisti, che hanno assistito all’ennesimo sopruso perpetrato dalle milizie, e hanno deciso di reagire. Tra i tanti nomi anche quello di Jerzy Popiełuszko (prete di ideologia opposta al regime, ucciso poco dopo) e di Solidarność, l’organizzazione anticomunista che per anni ha supportato i disertori, offrendogli una via alternativa alla morte per alto tradimento. (Letizia Cilea)
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Presentato fuori concorso e tratto dall’omonimo libro di Karine Tuil, Les choses humaines è un dramma giudiziario atipico e intelligentemente scritto sulla sottile linea che separa il bene dal male, il consenso dalla coercizione, la soggettività dalla realtà dei fatti. Alexandre è il figlio modello di Jean e Claire: lui è un importante giornalista televisivo, traditore seriale e in procinto di ritirarsi; lei una saggista sostenitrice del femminismo radicale risposatasi con un professore di letteratura. Durante una cena, Alexandre ha occasione di conoscere Mila, figlia del nuovo marito della madre. Dopo cena i due escono insieme, diretti a una festa cui Alexandre era stato invitato. La mattina dopo il ragazzo viene arrestato per aver stuprato Mila: sarà l’inizio di un’odissea giudiziaria e mediatica che distruggerà ogni equilibro famigliare.
Lavoro coraggiosissimo e ben calibrato, il film di Yvan Attal si inserisce nel filone delle opere legate al #MeToo e alla giusta condanna della cultura dello stupro, aggirando però soluzioni semplicistiche e dedicandosi a problematizzare tematiche di profonda consistenza giudiziaria, esistenziale e umana: un rapporto sessuale apparentemente consenziente si consuma in uno sgabuzzino. Per lei, timida diciassettenne ebrea, si tratta di violenza; per lui, ventenne modello abituato ai rapporti occasionali, è un semplice incontro carnale. È davvero possibile delineare un’unica verità? Da questo dilemma parte l’intero dramma giudiziario di Attal, durante il quale i due giovani protagonisti vengono interrogati, le loro abitudini analizzate, la loro presunta innocenza – o colpevolezza? – messa a giudizio; insieme a loro sono le vite degli adulti a essere smembrate, con l’intento – forse un pelo didascalico – di recuperare le ragioni, le origini e i traumi che stanno alla base dei comportamenti dei due ragazzi. Nessun manicheismo si ravvisa però in questo racconto, nessuna presa di posizione né tradimento della causa femminista. Solo un’onesta e ben condotta indagine sui meandri della condizione umana, su cosa voglia dire riconoscere le proprie mancanze e ammettere di aver commesso atti che, in un modo o nell’altro, con coscienza o meno che sia, hanno fatto del male a coloro che ci stanno intorno. Il dubbio e la sofferenza dilaniano tanto i protagonisti quanto i personaggi collaterali, interpretati peraltro da un cast d’eccezione: Ben Attal (Alexandre), Charlotte Gainsbourg (Claire), Suzanne Jouannet (Mila) e Pierre Arditi (Jean), tutti attori che, supportati da una messa in scena sobria e da una sceneggiatura solida, danno il meglio di loro nel rappresentare un dramma sociale di un’attualità che è impossibile ignorare. (Letizia Cilea)
Nella foto grande: Żeby nie było śladów (Leave no traces) di Jan P. Matuszyński