Terzo film italiano in concorso (sui cinque previsti) è Qui rido io di Mario Martone. Eduardo Scarpetta è stato uno dei nomi più importanti del teatro italiano di fine Ottocento e inizio Novecento. Rinnovatore della commedia dialettale napoletana, è passato alla storia perché, tra i suoi numerosi figli non riconosciuti, c’erano anche i fratelli Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, a loro volta personaggi indimenticabili del teatro e del cinema italiano.
Il film di Martone traccia un affresco colorito e opulento della famiglia Scarpetta: attorno al grande attore (interpretato da Toni Servillo), ci sono la moglie, le amanti, le attrici e gli attori della compagnia, il personale di servizio: una vera e propria industria dello spettacolo (Scarpetta aveva anche un suo teatro a Napoli, dove metteva in scena le sue opere). Il suo carisma e le sue capacità permettevano anche che i vari figli e le amanti dell’attore vivessero tutti nei dintorni dello stesso lussuoso palazzo che aveva fatto edificare al Vomero e chiamato provocatoriamente “Qui rido io”.
Martone mostra anche come gli inizi del ‘900 evidenzino i problemi dettati dall’avvento di grandi novità: il desiderio del figlio Vincenzo (interpretato dal giovane Eduardo Scarpetta, pronipote dell’attore) di iniziare una carriera cinematografica, l’abbandono della sua spalla storica (Gianfelice Imparato) che va a lavorare per un’altra compagnia, ma soprattutto la causa intentata da Gabriele D’Annunzio per la parodia di Scarpetta del suo dramma teatrale “La figlia di Iorio”, che si trascinerà per ben tre anni. Qui rido io è un grande omaggio del regista napoletano all’arte teatrale, con la sua grandezza e le sue contraddizioni, e che soprattutto permette di comprendere le radici della famiglia De Filippo e del suo contributo all’arte del ’900. (Beppe Musicco)
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Sbarca al Lido La Caja, secondo film messicano in concorso alla 78ma Mostra del cinema di Venezia (1-11 settembre). La cassa del titolo è una cassetta metallica che custodisce i poveri resti di un uomo ucciso in Messico, probabilmente in un regolamento di conti, e sepolto in una fossa comune. Ora questa cassa viene affidata ad Hatzin, figlio dodicenne dell’uomo, che vive solo con la nonna, e da lei è stato incaricato di ritirarla per dargli sepoltura. Nel viaggio di ritorno però, Hatzin crede di riconoscere in un uomo a una fermata d’autobus il padre, per cui scende dal pullman che doveva riportarlo a casa e inizia a fare domande all’uomo, che nega però ogni legame col ragazzino. L’insistenza di quest’ultimo però spinge l’uomo a prenderlo con sé nel proprio lavoro: procacciatore di mano d’opera per le fabbriche di abbigliamento che ogni giorno aprono in Messico per conto delle grandi marche degli Stati Uniti.
Diretto dal venezuelano Lorenzo Vigas, produttore di Sundown di Michel Franco (che a sua volta produce La Caja), il film lascia lo spettatore nel dubbio di fronte alla certezza del bambino, che per gran parte del film appare graniticamente sicuro di aver trovato suo padre, e che si comporta in modo da compiacerlo, e un finale che sembra contraddire tutto quanto si è svolto fino a quel momento. Girato valorizzando i grandi spazi semi desertici del nord messicano, La Caja mette il dito nella paga di un paese descritto come un luogo dove la normalità è l’uso della violenza e dell’omicidio come metodi più spicci per risolvere ogni problema personale o aziendale, e dove anche i legami familiari possano ben poco di fronte a tutto questo. (Beppe Musicco)
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Dopo aver chiuso la 77ª Mostra del Cinema con il deludente Lasciami andare, Stefano Mordini torna a Venezia con La scuola cattolica, libero adattamento dell’omonimo romanzo di Edoardo Albinati (Premio Strega nel 2016). Presentato nella sezione Fuori Concorso, il film di Mordini si ispira agli eventi del tristemente noto delitto del Circeo, verificatosi nel settembre del ’75 per opera di tre studenti dei quartieri della Roma benestante a danno delle giovani Rosaria Lopez e Donatella Colasanti; rapite e stuprate per più di 48 ore in una villa sul promontorio del Circeo, poco fuori dalla capitale, le due vennero poi chiuse in un bagagliaio e riportate a Roma, dove furono recuperate da un carabiniere in ronda notturna. Aldo Ghira, Angelo Izzo, Giovanni Guido: questi i nomi dei tre responsabili del massacro, qui messo in scena attraverso un’esplorazione del contesto sociale e storico che parrebbe aver plasmato le menti squilibrate degli assassini. Per individuare l’origine di una malvagità così brutale si parte allora dalla scuola di stretta impostazione cattolica, dal tenore delle morbose relazioni amorose e famigliari, dalle amicizie criminali e dalle sadiche inclinazioni di ciascuno di questi ragazzi: un ambiente malsano e intriso di un’ideologia vagamente tendente al fascismo, come se tutti, in questo assurdo microcosmo fatto di benessere e perversione, considerassero giustificabile e lecito l’uso della violenza come mezzo di persuasione e affermazione sull’altro.
Peccato che sul fronte della sceneggiatura l’atmosfera, i toni e la delineazione del contesto socio-educativo non siano sufficienti a fornire una narrazione coerente; ogni sotto-trama, quadro famigliare, persino le azioni dei personaggi risultano dunque slegati tra loro, i temi solo superficialmente introdotti e i dialoghi impregnati di un didascalismo ai limiti del sopportabile. La seconda parte del film sembra poi compiacersi di un uso eccessivamente leggero della violenza, con scene di nudo gratuite e ripetute fino ad asfissiare lo spettatore. Si salvano forse le prove dei giovani protagonisti, da Benedetta Porcaroli (interprete di Donatella Colasanti) a Luca Vergoni (nei panni di Angelo Izzo), volti freschi e talentuosi che riescono a coinvolgere lo spettatore nonostante la delineazione macchiettistica dei loro personaggi. (Letizia Cilea)
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Ancora per la sezione Fuori Concorso, torna a Venezia il cinema western con Old Henry, diretto dal regista statunitense Potsy Ponciroli. La storia e l’ambientazione sono tipiche del genere: un contadino dal passato burrascoso di nome Henry e suo figlio Wyatt vivono nella loro fattoria al riparo di una collina in Oklahoma; quando Henry ritrova un uomo ferito, con una borsa piena di soldi e solo un cavallo a fargli compagnia, decide di ospitarlo in casa sua, attirando l’attenzione di alcuni ambigui personaggi che verranno a disturbare la sua quiete e rivangare il suo passato.
Siamo cowboy e siamo brutti, sporchi e cattivi: i requisiti per mettere su un western che si rispetti ce li abbiamo tutti. Dati per certi quelli, ciò che resta è l’anima di Old Henry, un’opera aderente al genere in superficie, ma dotata di un’identità più profonda che risiede nella caratterizzazione del protagonista, nel mistero che il suo passato cela e nelle leggende da cowboy fuorilegge tramandate per generazioni: uomo tranquillo, dedito alla campagna e agli animali, a Henry interessa solo il bene di suo figlio Wyatt, giovane ribelle desideroso di scoprire il mondo. Henry è preoccupato per le sue sorti, ha paura che quel mondo gigantesco possa divorare il ragazzo e portarlo a fare degli errori, gli stessi errori che lui, ex pistolero provetto, ha fatto da giovane.
Poche ma efficaci battute, un ritmo perfetto e un buon background narrativo sono le caratteristiche del film di Ponciroli, che dirige un western sospeso tra passato e futuro senza mai annoiare, né svirgolare in usurati cliché. Non la storia del solito cowboy vagabondo dunque, ma quella di un cowboy in pensione che conosce i pericoli del mondo e cerca di tenersene lontano; ma la storia di Old Henry è anche una storia sulla paternità, su quale sia il peso di un passato che ritorna e sull’eredità che gli anziani hanno da lasciare ai giovani. Semplice, efficace, soddisfacente, Ponciroli confeziona insomma un’opera intelligente, originale, persino dotata di alcuni colpi di scena inaspettati e ottimamente interpretata dal bravissimo Tim Blake Nelson (Watchmen, La sottile linea rossa, Fratello, dove sei?). (Letizia Cilea)
Nella foto grande: Qui rido io di Mario Martone
Nel video: Letizia Cilea e Roberta Breda parlano di L’evénèment, La Caja e La scuola cattolica: