Può un quadrato entrare in un cerchio? Evidentemente no, ma lo è forse di più che un gruppo di quarantenni sovrappeso e in difficoltà, per diversi motivi, creino una squadra di nuoto sincronizzato maschile. Inizialmente si iscrivono, singolarmente, al corso sette persone che hanno tutte motivazioni diverse. Il più in crisi è Bernard: disoccupato da due anni, depresso, non fa nulla e rimane in casa, con una bravissima moglie che lo sostiene ma che teme di non farcela più. Lui si iscrive in piscina per far qualcosa, per stare con altri. Ma non è che i suoi “colleghi” siano a posto: c’è il rocker fallito (ma che in realtà non ha mai avuto successo: e ora al limite suona per anziani frequentatori di sale bingo) che lavora come cameriere in una mensa; c’è il proprietario di un’azienda che va male e che ha idee sempre strampalate per risollevarsi; c’è l’uomo ansioso e rompiscatole che tratta male il figlio balbuziente; e un paio sono solo troppo gentili per un mondo che non guarda in faccia a nessuno. Si troveranno di fronte un’istruttrice ex campionessa che rovinò la sua vita, e quella di una sua amica e compagna di nuoto, per colpa dell’alcol. Cosa possono fare insieme queste persone? L’idea di partecipare ai campionati del mondo in rappresentanza della Francia non sembra particolarmente geniale… Ma al di là dei possibili risultati, in gioco per loro c’è la riscoperta della stima di sé anche a costo di rischiare un figuraccia.
La storia di Sette uomini a mollo (in originale Le Grand Bain, presentato fuori concorso a Cannes 2018) è molto semplice e ricorda tanti altri esempi simili, su tutti Full Monty che vent’anni fa divenne modello per vari epigoni più o meno simili: lì c’era un gruppo di disoccupati che trovavano nell’improbabile attività di spogliarellisti la leva di riscatto umano; qui il contrasto è tra un gruppo di persone decisamente fuori forma e che attraversa difficoltà diverse, non solo lavorative (anzi, è solo Bernard ad avere quel problema: e infatti è quello che sta peggio) e un’attività sportiva prima amatoriale e poi addirittura agonistica. Ma certo nessuno sta bene con se stesso. Nemmeno la bella istruttrice Delphine, che poi lascerà il posto alla sua collega su sedia a rotelle (per sua colpa), Amanda, che paradossalmente sembra il personaggio più tosto e desideroso di vittoria. Ovviamente, essendo una commedia, si deve valutare il film sulle battute, le gag, la resa dei personaggi: è tutto un po’ frenato, ogni tanto si sorride ma non troppo. I personaggi non sono tutti simpatici: Bernard, interpretato dal sempre ottimo Mathieu Amalric, fa tenerezza, e colpisce il rapporto che ha con la moglie che lo sostiene e lo ama senza condizioni; funziona anche il candido personaggio di Thierry interpretato da Philippe Katerine. Ma alcuni degli altri personaggi (a partire da quello di Benoît Poelvoorde, sempre sopra le righe) non creano la giusta empatia, o sono un po’ troppo visti come il rocker fallito di Jean-Hugues Anglade (attore gigantesco negli anni 90, che si è un po’ perso). Lo potrebbero fare le due giovani atlete (ormai ex), ma la pur brava Virginie Efira ha un personaggio un po’ stereotipato (e non è molto credibile come alcolizzata), mentre la ragazza diventata paraplegica per colpa dell’amica evita il patetismo alzando il tono dell’aggressività ma rischia di rendere ancora più farsesco il tutto, compromettendo in parte l’operazione simpatia. Sono però da apprezzare in gran parte gli attori (tra i quali Guillaume Canet), diretti da un regista che è uno di loro: Gilles Lellouche, attore spesso da commedie (come le recenti C’est la vie o Separati ma non troppo, anche se ha fatto anche il gangster per esempio nel bel French Connection), che dopo un paio di regie di episodi in film collettivi ha diretto il suo primo lungometraggio in solitaria. Si vede che conosce bene il mestiere e tira fuori il meglio dagli attori, alcuni dei quali conosce bene da tempo.
Però se la parte iniziale, tra presentazione dei personaggi, solidarietà e amicizie in formazione e difficoltà quasi insormontabili, tiene abbastanza, la parte finale della gara – vero scoglio delle commedie con missioni impossibili da realizzare – convince proprio poco (ovviamente, siete autorizzati a fermarvi qui e non leggere oltre). Perché diventa ancor più piatta, con una suspense esagerata che si trasforma in un assurdo, in cui – dopo che il disastro sembra sempre dietro l’angolo – i sette improvvisati nuotatori sincronizzati finiscono per vincere la medaglia d’oro contro rivali veri, ben più attrezzati. Va bene la sospensione d’incredulità e anche l’esaltazione dell’outsider, ma qui siamo ben oltre. E se è vero che la chiusa su Bernard è bella perché sottolinea che la vera vittoria è la dignità, questo finale troppo facile rovina un po’ quel che di buono si è visto prima.
Luigi De Giorgio