Nella Romania degli anni Ottanta due amiche condividono la stanza di una squallida residenza universitaria. Gabita è incinta e decisa a ricorrere all’aborto clandestino (abortire era un reato proibito con la prigione nel regime di Ceasescu: si puntava a incrementare la popolazione per motivi ideologico-nazionalistici), reso particolarmente pericoloso dallo stadio avanzato della gravidanza (i quattro mesi del titolo). Otilia interviene in suo soccorso iniziando un’affannosa via crucis per le strade della città: troverà il denaro necessario, subirà i soprusi del medico, si sbarazzerà del feto, vivendo in prima persona il dramma dell’aborto.
Con immagini crude e rigorosi piani sequenza, il giovane regista rumeno Cristian Mungiu firma un’opera in cui l’orizzonte morale si fonde con un’estetica forte, capace di disattendere e rilanciare le attese dello spettatore. Costruito come un thriller psicologico (cosparso di indizi che non vengono mai ripresi), il film conquista per la rappresentazione dell’umana sofferenza di chi scopre che un feto è un bambino molto piccolo di cui non è così semplice sbarazzarsi. In questa società disperata, l’incontro con il dolore diventa la via per andare a fondo dei rapporti, soprattutto quelli di coppia, che difficilmente reggono alla superficialità. Disturbante per chi ama un cinema rassicurante, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è una Palma d’oro che premia l’attuale rinascita del cinema rumeno, povero di mezzi ma vicino ai turbamenti della società contemporanea segnata dall’egoismo.
Daniela Persico
UN EDITORIALE SU QUESTO FILM (9-9-2007)
Il vero scandalo è l’aborto. Il film ha messo d’accordo non solo i giurati del festival francese ma anche la critica, che in larga parte ha parlato di grande film, di recupero del neorealismo da parte di una cinematografia che si sta riprendendo negli ultimi anni dopo decenni bui (come tutto il paese), di vittoria meritata. Con un però, e anche bello grosso. Finché Mungiu attacca l’aborto clandestino e descrive lo squallore di quel regime che mandava in galera le donne che si liberavano dei feti anche a rischio della vita va bene, eccome (che figura inquietante il dottor Bebe, che oltre al denaro pretende un pagamento in natura dalla giovane Gabita e dall’amica Otilia per la sua sconcia operazione). Quando però, verso la fine del film, il regista colpisce duramente lo spettatore soffermandosi per quindici lunghissimi secondi su quel batuffolo di carne insanguinata, quel bambino respinto dalla madre, apriti cielo: ha violato un tabù (mai un feto abortito era stato mostrato al cinema), ché in confronto le scene di film pruriginosi o pseudoscandalosi non sono nulla. Ha mostrato quel che non si può accettare: che quel feto ha proprio i lineamenti di un bambino. Che è un bambino: un’immagine insostenibile. Da Cannes il giurato italiano Marco Bellocchio ammise che lui e gli altri artisti chiamati a giudicare erano rimasti colpiti dal film, ma «l’unica sequenza che mi sembra non opportuna è quella del feto: in un film così essenziale non era necessario mostrarlo». Fra i critici e i giornalisti, toni simili: per Paolo Mereghetti (Corriere della Sera) «è un colpo basso un po’ a effetto», per Roberta Ronconi (Liberazione) che pure esalta il film, in quella scena «un po’ maledetta, la camera si abbassa a svelare l’insostenibile, un feto di quasi cinque mesi appallottolato in un asciugamano… un’immagine che colpisce la pancia dello spettatore». Più d’uno ammette di essersi coperto gli occhi, come si fa con i film horror di assassini efferati, zombie e lupi mannari (o meglio, fanno le anime semplici: i critici si divertono come matti). Per fortuna ci sono state altre voci: tra queste, un commento anonimo del Foglio da Cannes («il colpo che capovolge ogni cosa, ogni intellettuale simbologia e mostra scandalosamente, semplicemente, dov’è l’orrore e chi è la vittima, sempre») e Mirella Poggialini su Avvenire («la descrizione impietosa di scelte crudeli alle quali solitudine, abbandono, impreparazione e paura condannano chi non è soccorso da convinzioni interiori e da sostegni generosi»). Purtroppo, l’Osservatore Romano – o meglio un suo critico – lo ha stroncato con superficialità, parlando di spettacolarizzazione dell’aborto, di film squallido e verboso, un segno dell’odierno imbarbarimento: un fraintendimento grave, che ha fatto scatenare gran parte della stampa contro il solito Vaticano censore…
In realtà, se pure il tema del film è una denuncia dell’aborto clandestino prima che dell’aborto stesso (ci si può chiedere: e prima dei quattro mesi non è un bambino?), la posizione di Cristian Mungiu è di un’onestà rara: «Mi sono posto il problema se mettere o no questa scena, poi l’ho ritenuta necessaria. Non per scioccare il pubblico, ma per raccontare realisticamente una storia accaduta a una mia amica. Quando le due ragazze vedono quell’esserino, si rendono conto della sua umanità, che prima era un concetto astratto». E ancora: «Quello che pongo non è un problema religioso ma una riflessione morale. L’aborto viene spesso presentato come un’astrazione. Ma un feto non è solo un mucchio di cellule. Ho voluto mostrarlo perché la gente veda quello che è». Un fatto che non a caso le due protagoniste, alla fine, cercheranno di rimuovere («Sai cosa faremo? Non parleremo più di questo»). Il rischio è che si rimuova anche il film, apprezzato ma anche “sterilizzato” nella provocazione alla coscienza moderna. Noi di lo sosteniamo perché è da vedere, anche se è un’esperienza dolorosa, e da far vedere.
Antonio Autieri