“Cosa può venire di buono da Bretagna e dalla piccola Brest?”, sembrano pensare i medici baroni e “parrucconi” dell’Agenzia del farmaco quando la dottoressa Irene Frachon inizia la sua guerra contro un colosso farmaceutico e il suo farmaco Mediator. Lei, dopo aver visto morire vari pazienti per disfunzione della valvola cardiaca, inizia a collegare questo medicinale prescritto a persone obese per dimagrire alle morti sospette. Quando i numeri diventano importanti (una dozzina), per la dottoressa diventa insopprimibile l’esigenza di verità. Ma da sola non ce la può fare: coinvolge il gruppo di ricerca farmacologico della struttura, in particolare il dottor Antoine Le Bihan che in continua alternanza di sentimenti sulla vicenda (tra dubbi, paure, entusiasmi, diffidenze e solidarietà per la collega) si affianca a lei nella battaglia per chiedere all’Agenzia Francese del Farmaco di ritirare il Mediator dal commercio. E per dimostrare che i casi sono probabilmente varie centinaia, ma sono stati tutti nascosti per interessi. Il tutto non senza rischi personali: per la carriera, e forse non solo.

Ispirato alla vera storia di Irene Frachon -e alla sua autobiografia – e alla sua lotta, tra il 2009 e il 2011, contro la casa farmaceutica produttrice del famigerato Mediator (colpevole di quasi un migliaio di morti), 150 milligrammi è il classico film di denuncia, all’europea ma senza disdegnare certi modelli di cinema civile hollywoodiano, dal vecchio Silkwood a Erin Brockhovich. Un modello che nella versione europea spesso è più dogmatica e manichea di quella americana, anche se lo schema è quello classico buono/cattivo, e in effetti i casi sono acclarati e torti e ragioni definite (anche se tutto l’iter dei processi non è concluso e le condanne non sono ancora state comminate). All’inizio, se non sapessimo che è una storia vera, l’intransigenza di Irene Frachon ci può sembrare a tesi. Ma il film di Emmanuelle Bercot (che da giovane voleva fare il medico, come il padre cui il film è dedicato) non è opera da mezzi toni, sfumature, dubbi. Punta invece all’indignazione, anche a costo di alzare i toni con la protagonista che spesso dà in escandescenze o va sopra le righe (il che smorza un po’ la forza della prova, complessivamente molto buona, della brava attrice danese Sidse Babett Knudsen, ormai trasferita in Francia da tempo). I suoi obiettivi: i responsabili della casa farmaceutica, i capi dell’Agenzia del Farmaco e dell’ospedale che mettono i bastoni tra le ruote, i colleghi che la sostengono ma non sempre con la convinzione giusta. Il sostegno che non le viene mai a mancare è quello del marito (figura silente e discreta, ma quando deve parlare le darà la forza di andare avanti) e dei figli, una famiglia numerosa e rumorosa – i figli suonano tutti in una specie di complesso casalingo – che è il suo punto di forza. Le servirà per diventare, suo malgrado, un personaggio pubblico con tanto di controverso libro-denuncia e interviste in televisione.

Il film, visto l’argomento, sconta nella prima parte un pathos relativo, che cerca di suscitare a comando. Nella seconda parte le emozioni sono più genuine e meno preparate (il già citato rapporto con il marito, la bella figura dell’informatore segreto che rischia di suo per trovare dati preziosi da fornirle, la diretta tv in cui lei cita i nomi dei suoi pazienti), ma rimane un che di artefatto che frena in parte 150 milligrammi. Ne fa le spese soprattutto il personaggio di Antoine (dottore talvolta coraggioso o comunque incoraggiante – «Non c’è battaglia senza paura» – e talaltra così pavido da chiudersi in bagno a piangere durante un’audizione…), interpretato da un Benoît Magimel un po’ troppo ingessato . Ma alla fine il risultato è discreto e onesto: però, per essere considerato anche un bel film manca parecchio.

Antonio Autieri