Quella di Einar Wegener/Lili Elbe, primo transessuale noto della storia, è una vicenda che in parecchi avevano cercato di portare sullo schermo da anni (basti pensare che a un certo punto la stessa Nicole Kidman avrebbe dovuto interpretare il/la protagonista del titolo), che giunge adesso sugli schermi (è passato mesi fa al festival di Venezia 2015) con la regia elegante e simpatetica di Tom Hooper (Il discorso del re, Les Miserables). Il regista ha l’ambizione di trasformare un argomento finora relegato al cinema indipendente o alla televisione più trasgressiva e “di tendenza” (vedi la serie pluripremiata di Amazon, Transparent) in un grande racconto mainstream capace di toccare il grande pubblico. In questo tentativo, intelligentemente, gli autori scelgono di raccontare la storia della trasformazione di Einar in Lili attraverso gli occhi di Gerda, moglie devota e innamorata (la bisessualità del personaggio originale è totalmente taciuta nel film: una semplificazione furba o necessaria a seconda dei punti di vista) che quasi involontariamente apre il vaso di Pandora dell’identità del marito chiedendogli un giorno di posare per lei in abiti femminili, scatenando un processo che si rivelerà insieme liberatorio e distruttivo.
Se quando li conosciamo Einar e Gerda sono una coppia di artisti felicemente sposata, molto diversa è la situazione delle rispettive carriere: tanto è riconosciuto e apprezzato lui per i suoi paesaggi misteriosi, tanto poco considerata lei, in attesa di un soggetto che riesca a liberarne il genio. La progressiva appropriazione da parte di Einar della sua identità femminile segue percorsi tortuosi e non lineari. Alla sua prima uscita pubblica Lili (il nome che gli assegna la loro amica Ulla quando lo vede così, diventa poi quello del suo alter ego: una misteriosa cugina giunta dalla campagna) attira le attenzioni del giovane Henrik (che si scoprirà poi essere omosessuale e che è l’espediente che permette agli autori di introdurre un discorso distintivo tra transessualità e omosessualità). Questa trasformazione (la metafora del passaggio della crisalide a farfalla è trasparente e ben sottolineata anche dalla fotografia) segna anche l’inizio del successo di Gerda come pittrice. Mentre grazie alla sua “ragazza danese” ritratta nelle pose più diverse Gerda guadagna il successo, lei sente poco a poco scivolare lontano il suo Einar, che sembra sempre più assorbito in un processo di autoappropriazione che la lascia inevitabilmente indietro.
Una delle scelte più intelligenti della pellicola, peraltro, è proprio quella di guardare Einar/Lili attraverso gli occhi piedi d’amore di Gerda e poi di Hans, amico d’infanzia di Einar e in parte custode del suo segreto, che i due rincontrano mercante d’arte a Parigi. È alle sue larghe spalle (quelle del belga Matthias Schoenaerts, capace di infondere al suo personaggio forza e gentilezza) che si appoggerà Gerda per trovare la forza di “lasciare andare” Lili verso il suo destino.
Sono proprio Hans e Gerda a incarnare il vero tema universale della pellicola (la necessità di un sacrificio per amore che permetta all’altro di essere davvero se stesso), in fondo quasi più che la scelta sessuale del protagonista (a parere di chi scrive, a dispetto della candidatura all’Oscar, questa non è tra l’altro la migliore interpretazione del camaleontico Redmayne, e del resto la scelta di un attore uomo per la parte è stata da alcuni contestata). Nelle fasi finali del processo, infatti, Einar/Lili sembra così egoisticamente concentrato sul suo obiettivo da non vedere più il dolore che si lascia alle spalle. Il finale tragico eleva il tutto a una parabola di grande emotività, che tuttavia, proprio nella sua bellezza ed eleganza (oltre la fotografia e la musica di Desplat, meritano una menzione i costumi straordinari) e nella sua caparbia volontà di sedurre il grande pubblico, lascia il sospetto di aver privilegiato almeno in parte un sentimentalismo astuto a una più coraggiosa e onesta trasgressione.
Laura Cotta Ramosino