Ambizioso il ritorno di Luciano Ligabue alla regia, con il suo terzo film Made in Italy che riprende titolo e struttura di un suo recente concept album. Ovvero un disco in cui, come si faceva una volta, attraverso le canzoni si racconta una storia. Il film infatti raccolta le vicende della coppia Riko e Sara accompagnandole con le dalle canzoni di Ligabue quasi come un musical (o un “musicarello” anni 60…), con effetti spesso da videoclip. Certo che, a vent’anni dal bel Radiofreccia (una vera sorpresa, in cui il rocker debuttava alla regia con l’aiuto di Antonello Grimaldi) e a sedici dal deludente Da zero a dieci, si è preso un bel rischio: raccontare un’Italia smarrita, confusa e incazzata, con mille problemi per le persone più semplici, dalla precarietà lavorativa a quella nei rapporti. Forse troppe ambizioni per le sue qualità di regista.

Anche perché, nonostante le pretese “alte”, questo film discontinuo può piacere sì ma a un pubblico di fan e a spettatori senza troppe paturnie; perché ai critici e ai cinefili esigenti è proprio difficile che possa andare a genio. Fin dai titoli di testa, con Stefano Accorsi che balla vestito da musicista country con le frange: lui in effetti sognava di fare il musicista ma da trent’anni fa l’operaio a Reggio Emilia in una fabbrica di insaccati, che oltre tutto è in crisi e con regolarità lascia qualcuno a casa. La moglie porta avanti con discreti risultati un salone di parrucchiera, c’è chi se la passa peggio di loro: ma tradimenti, frustrazioni e dolori del passato con cui non riescono a fare i conti li allontanano sempre di più. E attorno a loro, altri amici sono in difficoltà, tra cui il fragile e affettuoso Carnevale che dissipa la ricchezza di famiglia al videopoker. Ma c’è anche chi prova a dare una mano agli altri. Per Riko e Sara, che hanno anche un figlio ventenne che non se ne va di casa ma pare più vivo di loro, si può ancora ripartire con speranza?

Film appunto con troppi alti e bassi, con troppe citazioni, slogan, spunti, sottostorie e personaggi (oltre al clan di amici, il solito padre con la demenza senile, il collega indiano e la sua famiglia…), e soprattutto svolte brusche. Eppure con una sua ribalda vitalità: con una metafora enologica, non è un vino doc ma uno schietto Lambrusco tanto caro a Ligabue. Tra i difetti del film troppe scene e dialoghi al limite dell’imbarazzante (il matrimonio sopra le righe, certi monologhi patetici, il viaggio a Roma tra “Grande bellezza” sentimentale e manifestazione operaia da brutto film “sociale”), tra i pregi la voglia di tentare di uscire da un facile schema (ogni volta che qualcuno mira a un obiettivo scontato, dalla polizia al manager avido, subito una battuta sterza in altra direzione), e soprattutto un gruppo di attori impegnato a rendere credibili anche i momenti meno felici: Stefano Accorsi e Kasia Smutniak funzionano abbastanza bene (anche se entrambi hanno fatto di meglio), Fausto Maria Sciarappa ha un personaggio – quello di Carnevale – non scritto benissimo ma gestito dall’attore con classe, mentre il migliore in campo è Walter Leonardi (l’amico Max, dalla battuta sardonica sempre in canna): chi conosce i video comici del gruppo Il Terzo Segreto di Satira lo riconoscerà facilmente, e chissà che il cinema non offra più spazio a questa ottima spalla dai tempi comici perfetti.

Per essere apprezzato nei suoi spunti di interesse, Made in Italy richiede uno spettatore ben disposto e magari tifoso (come sono i fan del cantante di Correggio). Il “Ligabue pensiero” quando parla di politica e società ci è sempre parso molto banale, nelle canzoni e altrove (terribile il documentario su di lui Niente paura, del 2010, con tanti fans e pure vip a dargli corda). Il suo forte è raccontare la vita di persone normali, la gente del “bar Mario” e dei borghi di provincia. E infatti era dai racconti Fuori e dentro il borgo (piccoli ritratti azzeccati) che era nata l’idea di Radiofreccia, che con quell’anima – raccontare storie e persone, non fare prediche sociopolitiche – fece centro nel pubblico e pure con la critica. Mentre la “tirata” di Da zero a dieci era un pastrocchio. Qui si parte male, con un tg che parla di Italia paese corrottissimo («il secondo in Europa dopo la Bulgaria») e con la descrizione della fabbrica molto stereotipata. E pure certe scenate “forti” venire i brividi (le scenate coniugali, la rissa nel locale-tram dove il protagonista e l’amico ci provano con giovani donne). Mentre quando Ligabue racconta, per esempio, l’amicizia cameratesca tra uomini è decisamente più efficace. Ma non ha senso, davanti a un film così, fare la conta dei bonus e dei malus. È un prendere o lasciare, a seconda delle inclinazioni di partenza. E sicuramente, se non si ama il personaggio Ligabue e le sue canzoni, meglio stare alla larga dal film.

Ma come sempre di fronte a un bicchiere non del tutto vuoto ma pieno solo a metà, dipende anche dall’umore. E alla fine, personalmente, viene comunque voglia di promuovere il terzo Ligabue cinematografico con una sufficienza (stiracchiata), perché una confusa sincerità di fondo non si può negare. E perché tra tanto accumulo indigesto, Made in Italy ha il pregio di chiudere bene, con una prospettiva regalata ai suoi personaggi e con l’ultimo monologo, affidato a una lettera, finalmente emozionante come voleva essere tutto il film.

Antonio Autieri