Una storia che si dipana esattamente per vent’anni, tra il 1980 e il 2000: dal momento più sanguinoso nella guerra tra cosche mafiose di Cosa Nostra – con la sua lunga scia di morti – alla morte di Tommaso Buscetta, detto Masino. Che medita di rientrare in Sicilia dal Brasile dove si era rifugiato, quando viene a sapere che – dopo il fratello – due suoi figli di un precedente matrimonio sono stati uccisi barbaramente per mano di Pippo Calò, che credeva un amico fidato. Ma lo scoverà prima la giustizia: con un blitz, il “boss dei due mondi” viene arrestato in Brasile ed estradato in Italia, dove – nonostante le iniziali titubanze di chi non si considera un pentito “infame” – racconterà tutto quello che sa al giudice Giovani Falcone, per vendetta contro una mafia che ha tradito i codici d’onore di un tempo. Ma sempre temendo rappresaglie e vendette contro la famiglia brasiliana, nel frattempo trasferita sotto protezione negli Stati Uniti. Le sue rivelazioni – grazie alle quali venne istruito il celebre “maxiprocesso” con 475 imputati – portarono a sentenze che decimarono l’organizzazione criminale, che gliela giurò.

Il nuovo film di Marco Bellocchio, in concorso al Festival di Cannes 2019, ripercorre la vicenda umana prima che criminale o processuale di Tommaso Buscetta, il più famoso pentito di mafia: anzi, “pentito” è una parola che rifiutava, non sentendosi tale. Buscetta, nei lunghi interrogatori in cui Falcone si era conquistato la sua fiducia, non solo dà tutte le informazioni utili a smantellare l’organizzazione piramidale mafiosa e chiarisce ogni aspetto della lunga guerra che vide il sanguinario Totò Riina schierarsi contro le cosche rivali dei corleonesi (capeggiate da Bontate e Badalamenti), ma cerca di far passare la sua immagine di soldato semplice, poco interessato al comando (anche perché amava godersi la vita: i viaggi, le donne), e soprattutto la sua idea su Cosa Nostra: non ci sono più uomini d’onore, la Mafia di Riina è una banda di criminali che non ha più codici e uccide anche donne e bambini senza ritegno. Suscitando anche i sarcasmi di Falcone: per quanto degenerata con Riina in una guerra bestiale, l’idea di una “mafia buona” faceva orrore al giudice, che riteneva Buscetta affidabile ma anche – in parte – un abile mistificatore delle sue colpe. E su questo, seppure alla distanza, il regista riequilibra un giudizio che a tratti poteva sembrare fin troppo accondiscendente con un uomo apprezzabile per il coraggio (e per i benefici resi allo Stato) ma che sicuramente coprì molte sue ambiguità.

Nel racconto, Bellocchio limita al minimo i consueti vezzi che hanno spesso appesantito i suoi film (a parte gli immancabili inserti onirici), impaginando la storia con uno stile elegante – da ricordare la bella scena iniziale della festa “della pace”, o il pentito in bicicletta nella sua casa/prigione – e sicuramente coinvolgente; ed enfatizza così la prova dei suoi interpreti, dal bravo Pierfrancesco Favino (la cui personalità a volte rischia però di travalicare il personaggio) a Fabrizio Ferracane (il diabolico Pippo Calò), da Fausto Russo Alesi nei panni di Falcone a Luigi Lo Cascio in quelli di Totuccio Contorno (altro pentito). Una storia a molti nota, vuoi per la cronaca, vuoi per l’interesse già mostrato da cinema e televisione e che può lasciare perplessi per certe scelte “fantasiose” (l’uccisione di Fra Giacinto, un Andreotti per niente somigliante che sembra infilato a forza nella storia per giustificare il riferimento alla politica romana, l’interrogatorio dell’avvocato Coppi che mette in evidenza le contraddizioni di Buscetta, ma che lo fa apparire quasi come un sodale della mafia). Il tutto con la consueta freddezza emotiva di un cinema “di testa” che non punta mai all’emozione, perfino nei momenti più tosti come l’attentato di Capaci (tranne le consuete e celebri immagini di repertorio dei funerali), ma questa volta capace anche di momenti di grande efficacia che rimarcano la solitudine o il dolore del protagonista.

E se anche due ore e mezza sono tante, Il traditore ci sembra però essere uno tra i migliori film della carriera del regista piacentino. Cui giova per una volta aver accettato un progetto su commissione (l’idea iniziale è stata del produttore Beppe Caschetto) che inizialmente sentiva distante dalla sua ispirazione: al regista che trasforma in genere anche i temi sociali e storici in riflessioni personali e psicanalitiche spesso poco lineari, un film più semplice e narrativo ha fatto bene, facendo emergere le sue qualità e tenendo a bada le sue fumisterie.

Beppe Musicco