Franco Paradiso è un intrallazzatore di professione, abituato a vivere di favori ottenuti da potenti politici e a campare di espedienti. In difficoltà economica, chiede un aiuto a un ministro (con forte accento toscano… Probabile riferimento alla stagione di Renzi e del “giglio magico”, peraltro ormai già lontanissima) che a sua volta ha bisogno di un favore in un’operazione che può servire a entrambi: allestendo una produzione cinematografica in Armenia si può ottenere un milione di euro da fondi europei. Poi si possono sospendere le riprese e sparire con i soldi… Con l’aiuto della spregiudicata Valeria, che conosce bene l’Est europeo, viene allestita una piccola troupe italiana, con sceneggiatore-regista esordiente (in realtà un professore amante del cinema), un macchinista, un fotografo che si può adattare a fare l’operatore e una protagonista presa (letteralmente) dalla strada. Poi in Armenia dovrebbero trovare altri collaboratori, location, comparse… E i soldi in arrivo dall’Italia. Che ovviamente non arriveranno mai.
Lo spunto di Hotel Gagarin, esordio alla regia di Simone Spada (già aiuto regista in film come Non essere cattivo, Lo chiamavano Jeeg Robot, Noi e la Giulia e un paio dell’accoppiata d’oro Gennaro Nunziante-Checco Zalone ), non era male; anche se i film, soprattutto italiani, che parlano di film interessano più a chi li fa e agli addetti ai lavori che al pubblico. Ma l’idea di cinque personaggi senza prospettive che si ritrovano in luogo sperduto con il sogno di creare qualcosa, e invece sono votati fin dall’inizio al fallimento, poteva essere interessante. Certo, fin dall’inizio gli stereotipi non mancano in quella che sembra una commedia senza pretese: il politico elegante e scaltro, l’intrallazzatore laido (con Tommaso Ragno abbonato a certi ruoli), la scaltra donna che gli tiene bordone (Barbora Bobulova, brava quanto serve), l’ingenuo professore – classica parte da Giuseppe Battiston, che può fare però ben altro – che ai suoi studenti vorrebbe insegnare la storia attraverso il cinema (ma anche lui, citare durante una lezione Arca russa di Sokurov…) e che sogna di fare un film (ovviamente serio, con un “messaggio”), la prostituta gentile (Silvia D’Amico), l’umile elettricista (Claudio Amendola), il fotografo spiantato e un po’ cinico ma non troppo (Luca Argentero). Come pure l’idea del luogo lontano dalla quotidianità in cui ritrovarsi. Altrettanto ovvio immaginare che laggiù, in Armenia, troveranno sì problemi (una guerra che non sanno nemmeno essere combattuta) ma anche gente di buon cuore. E quindi, i caratteri genereranno contrasti, ma anche occasioni di conoscersi meglio e vivere un’esperienza entusiasmante. Ma è la parte migliore, in cui il film cerca di volare più alto, tirando fuori qualcosa dai suoi personaggi.
E invece quando si scopre il trucco e il sogno salta, anche il film ne risente. E parecchio. Sì, perché se sulla carta proprio dalla “crisi” del progetto parte la rinascita di quelle persone abbandonate a se stesse in Armenia, le soluzioni narrative adottate (con tanto di personaggio misterioso che ogni spettatore accorto intuirà presto dove va a parare) sono ancora più scontate, e pure deludenti. Bloccati in albergo dalla guerra, dalla neve e dalla mancanza dei soldi promessi, i cinque italiani allo sbando si inventeranno un modo di passare il tempo e di coinvolgere la popolazione circostante con una virata poetica parecchio retorica, che alterna qualche trovata simpatica a un eccesso di miele (“grazie” pure alle musiche di Maurizio Filardo), risultando sempre meno credibile. D’altronde voler fare a tutti i costi “poesia” al cinema è davvero un’impresa spericolata, che può riuscire a maestri navigati e a talenti fenomenali. Qui ci sono molte buone intenzioni, citazioni, frasi-slogan («se vuoi essere felice, comincia»: l’ha veramente Tolstoj?), e ovviamente anche una serie di storie sentimentali, dentro una struttura così meccanica che non permette neppure a bravi attori – la cui simpatia, alla fine, è la cosa da salvare – di emergere come era auspicabile.
Antonio Autieri